Le parole del governatore della Banca d’Italia pronunciate a margine del Financial Stability Forum domenica 10 ottobre confermano le preoccupazioni relative alla crescita dell’economia Italiana. Secondo Draghi, infatti, “l’Italia ha avuto un secondo trimestre buono e un terzo trimestre meno buono. La Germania cresce molto per le esportazioni, ma per la prima volta la sua crescita si fonda anche su consumi e investimenti. L’Italia cresce a rimorchio”.



L’affermazione di Draghi è interessante non tanto perché certifica la debolezza della ripresa italiana, peraltro già confermata da numerose altre fonti, quanto perché ne lascia intravedere le cause più profonde. In ultima analisi, ci dice il governatore, cresciamo poco perché i consumi interni sono particolarmente deboli, al contrario della Germania dove le note positive provengono proprio dalla componente interna della domanda. Detto in altri termini le nostre imprese, per uscire dalla crisi, devono cercarsi il mercato al di fuori dai confini nazionali.



Queste considerazioni sono suffragate dalla recente Indagine Congiunturale di Unioncamere relativa al II trimestre 2010. Complessivamente il 60% delle imprese prevede di mantenere stabile il proprio fatturato, mentre il rimanente 40% risulta equamente distribuito tra chi prevede un fatturato in crescita e chi in decrescita. Concentrando la nostra attenzione sugli ordinativi notiamo che il 59% prevede una stabilità degli ordinativi interni e il 21% un loro aumento a fronte di valori rispettivamente del 57% e 27% riferiti agli ordinativi esteri. Le previsioni più rosee sono dunque quelle riferite alla componente estera della domanda.



Il fatto che la nostra economia dipenda dalle esportazioni e vada dunque “a rimorchio” utilizzando l’espressione di Draghi, è senza dubbio un elemento positivo che tuttavia può essere la fonte di alcuni problemi. In primo luogo la caratteristica della domanda estera sta cambiando rapidamente. La propensione a esportare delle imprese italiane continua ad avere una vocazione prettamente europeista con circa il 57% delle esportazioni indirizzate verso l’area Ue, tuttavia è indubbio che le prospettive più interessanti provengono dai paesi emergenti a forte crescita economica, in particolare Cina, India e Brasile che saranno interlocutori sempre più importanti nel commercio internazionale. L’entrata e il consolidamento in questi mercati che per cultura, tradizioni e struttura istituzionale sono molto diversi dal mercato europeo costituiscono una sfida che non tutte le imprese riusciranno a cogliere.

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In secondo luogo, proprio la lontananza e “diversità” della componente più dinamica della domanda mondiale possono costituire una difficoltà in più per le imprese italiane, caratterizzate da un nanismo esasperato ben noto a tutti. L’accesso ai mercati esteri, in particolare se lontani, è infatti caratterizzato da elevati costi fissi che sono facilmente sostenibili dalle grandi imprese (in particolare le multinazionali) mentre possono risultare proibitivi per le piccole imprese. Ancora l’indagine Unioncamere mostra che tra le piccole imprese (meno di 50 dipendenti) il 21% prevede una crescita degli ordini esteri, mentre tra le grandi imprese la percentuale sale al 29%.

 

In terzo luogo la domanda estera può essere la causa di una accentuazione ulteriore del già marcato divario tra Nord e Sud del paese. I dati Istat mostrano che nei primi sei mesi del 2010 le esportazioni verso la Cina sono aumentate del 18% nel Nord-Ovest, del 36% nel Nord-Est, mentre sono diminuite dell’1,6% nel Sud. Allo stesso modo le esportazioni verso l’India sono aumentate del 22 e 25% nel Nord-Ovest e Nord-Est, mentre sono diminuite del 13% nel Sud.

 

Tutto ciò ha conseguenze dirette e importanti sul mercato del lavoro. I dati di Excelsior mostrano che l’aumento delle assunzioni tende a essere maggiormente concentrato nelle imprese medio-grandi con una forte propensione all’innovazione e all’esportazione, mentre le microimprese, proprio perché maggiormente dipendenti dalla domanda interna, mostrano forti segnali di debolezza.

 

Il fatto che la domanda di lavoro tenda a provenire da imprese ad alta propensione a innovare e a esportare ci riporta al nocciolo del problema. La qualità delle nostre esportazioni è infatti la conseguenza della nostra capacità di innovare, senza di essa continueremmo sì ad esportare, ma potremmo farlo con beni a minor contenuto di valore aggiunto caratterizzati da bassi margini che determinerebbero una forte pressione sul costo del lavoro.

 

Il caso Fiat costituisce un esempio interessante: il dibattito relativo al “metodo Pomigliano” si è concentrato prevalentemente sulla questione contrattuale, come se l’unica questione realmente dirimente fosse l’elevato costo del lavoro nel nostro paese. È indubbio che il combinato disposto di rigidità istituzionali e normative e dell’elevata tassazione rendono il costo del lavoro in Italia particolarmente elevato, tuttavia guardare solo a questo aspetto ci fa perdere di vista un elemento fondamentale. Anche in Germania infatti il costo del lavoro è elevato, non meno di quanto non lo sia in Italia, tuttavia i produttori tedeschi non sentono la stessa pressione per comprimere il costo del lavoro.

 

Il motivo sta nel fatto che negli anni l’industria tedesca dell’auto si è specializzata nella parte alta della scala del valore aggiunto acquisendo il pressoché monopolio delle auto di grossa cilindrata. È ovvio che il margine su auto di grossa cilindrata è superiore a quello realizzabile sulle utilitarie e permette di pagare stipendi “tedeschi” anche ai lavoratori blue collar. Questa specializzazione dell’industria automobilistica tedesca è avvenuta negli anni con un forte investimento nell’innovazione e nella qualità dei prodotti.

 

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Sotto questo profilo la Fiat paga le scelte infelici degli anni ‘80 e ‘90 e si trova costretta a competere nel mercato delle utilitarie schiacciata dalla forte concorrenza che proviene ora anche dai produttori orientali. In questo quadro il costo del lavoro risulta l’unico elemento su cui è possibile agire. La sfida a cui si trova di fronte Marchionne dunque non è solo quella di cambiare il sistema di relazioni industriali italiano, ma soprattutto di rilanciare la sua azienda sul piano dell’innovazione, seguendo l’esempio tedesco. La strada intrapresa è quella giusta, il tempo ci dirà se la strategia avrà il successo sperato.

 

Ciò che in piccolo è avvenuto per la Fiat deve avvenire anche per l’intero tessuto produttivo italiano. La priorità di politica economica deve dunque essere quella di porre le basi per una crescita di qualità basata sull’innovazione e sul capitale umano che possa da una parte permettere alle nostre imprese di cogliere le straordinarie opportunità offerte dal processo di globalizzazione e dall’altra ai lavoratori di valorizzare al massimo i propri talenti.

 

Gli strumenti a disposizione del policymaker sono numerosi e vanno dalla riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro, all’investimento in ricerca e sviluppo sino ad arrivare a strumenti di sostegno efficace alle imprese che vogliono esportare, in particolare a quelle di piccola dimensione. Senza un segnale forte in questa direzione la ripresa sarà sempre più un affare per pochi eletti.