Ora Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil (ancora per poco tempo), minaccia uno sciopero generale. Il proclama arriva dopo la manifestazione nazionale della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, svoltasi a Roma insieme a varie schegge della sinistra antagonista.

Ascoltando l’Epifani di piazza San Giovanni sembrava di ritornare alle tonitruanti dichiarazioni del sindacalismo comunista francese, ai tempi del generale De Gaulle, quando la Cgt scendeva nelle strade una volta all’anno per proclamare “la grève generale contre le patronat e le pouvoir personel”, lo sciopero generale contro i “padroni e il potere personale”. La fine di quella pratica sindacale è nota a tutti.



Il gollismo ispira ancora la Francia, il comunismo e la sua “cinghia di trasmissione” sindacale appartengono all’archeologia politica. Certo, la situazione italiana è diversa da quella francese del dopo “Battaglia di Algeri”. In Italia tutti i processi politico-sociali si metabolizzano più lentamente. Ragion per cui occorre prendere atto che nel fronte frastagliato dell’attuale sinistra italiana, c’è una parte del sindacato che si aggiunge al cosiddetto “popolo viola”, alla frange “grilline”, al giustizialismo dipietrista e al Pd, partito che appare immobile e diviso, in un blocco antigovernativo di opposizione.



Ma per la Fiom va fatta una considerazione ulteriore. L’azione del sindacato dei metalmeccanici sembra tutta politica e rivolta soprattutto all’interno della sinistra e del Pd in particolare. Sono ritornati i “superstiti” del breznevismo, malattia senile dello stalinismo, che vogliono spostare a sinistra il baricentro del Pd. In base alle parole d’ordine sentite, gli avversari della Fiom sono il Governo, Marchionne, Bonanni, la Cisl e la Uil. Ma nella sostanza, tra gli avversari, c’è anche un’anima del Pd, come quella di Enrico Letta e dello stesso Bersani, che vogliono aprire al centro dello schieramento politico italiano.



Che cosa c’entri tutto questo con la difesa del lavoro, la centralità del lavoro, una nuova concezione del lavoro nell’era della globalizzazione e di una difficile crisi economica, è difficile da comprendere. Un triste Danton diceva a Robespierre: “La rivoluzione è come Saturno, mangia i suoi figli”. La sensazione è un po’ questa: dopo la ventata pansindacalista del’68-’69, il sindacato italiano ha finito per mangiarsi tutto il credito che aveva avuto in Italia dal Dopoguerra in avanti. E la lenta risalita verso le posizioni riformiste è sempre insidiata da sacche ideologizzate.

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Le maggiori critiche al sindacato del periodo della contestazione non le fece la Confindustria, che anzi sembrava appiattita in una condizione tra paura e specularità con la controparte, ma la sinistra riformista interna al Psi e al Pci. Fu il comunista Giorgio Amendola, in più di un occasione, ad accusare duramente il sindacato, affrontando addirittura, da solo, un comitato centrale del Pci che lo redarguiva e lo richiamava all’ordine, con il segretario Enrico Berlinguer in testa.

 

Il problema che poneva Amendola era di riprendere il ruolo classico del sindacato, nato per raggiungere contratti e accordi, per difendere i diritti dei lavoratori, e anche per comprendere il momento economico e sociale in cui si sta vivendo, accettando addirittura una “politica di sacrifici” per salvare o rilanciare il sistema produttivo del Paese e l’occupazione.

 

Su questa linea era nata a Milano, nel 1891, la prima Camera del Lavoro. Su questa linea si muoveva il sindacato riformista fino all’avvento del fascismo. Su questa linea si mossero i sindacalisti della Cgil nel secondo Dopoguerra. Pur subendo la Cgil l’ombra lunga del Pci, comunisti come Giuseppe Di Vittorio, Agostino Novella, Aldo Bonaccini, riuscirono a mantenere una linea di riformismo costruttivo, di riavvicinamento con il sindacato di ispirazione cattolica e quello più vicino ai socialisti, cioè la Cisl e l’Uil.

 

Le frange estremiste ci sono sempre state nel sindacato. L’anarco-sindacalismo dei primi anni Dieci del Novecento portò alcuni suoi esponenti a confluire nel fascismo; l’estremismo del primo Dopoguerra favorì la nascita del fascismo; l’estremismo degli anni Settanta divenne un “brodo di cultura” per le Brigate Rosse e fu la causa della sconfitta prima davanti ai cancelli della Fiat e poi
del riflusso.

 

Nella concezione riformista il lavoro era talmente totalizzante, da caratterizzare un intera vita e da amarlo con passione, fino a portare all’orgoglio del proprio mestiere. L’operaio dell’Alfa Romeo si inseriva in un grande progetto tecnologico dell’automobile e lo condivideva. Il “bergamino” della Bassa rivendicava il suo ruolo e stava nella stalla auto-imponendosi una pulizia del proprio corpo, che per lui significava dignità del lavoro e della sua vita. Sono solo due esempi tra tanti.

 

Nella concezione estremista e ideologica, il lavoro veniva concepito come “alienante”, un “peso insopportabile”, una “merce” da vendere nel modo migliore. La libertà del lavoro era l’utopia di riscattare se stessi nel tempo libero, una sorta di visione da prepensionamento. È vero che le condizioni del lavoro erano spesso disumanizzanti, ma la linea sindacale riformista era proprio quella di difendere diritti che, nel lavoro, liberavano la stessa persona.

 

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Il punto di divisione è decisivo, perché riguarda la stessa concezione dell’uomo. L’ideologia ti offusca un dato di fondo e cioè il “nesso tra il gesto, enorme o banale, che compio e il destino, il compimento della vita e la pienezza dell’io”. Oggi è ancora l’ “énclave” ideologica del sindacato, gli orfani della lotta di classe, che confonde il ruolo del lavoro, che agisce solo in una dimensione politica, che è sempre alla ricerca di “traditori”, che non solo attacca Marchionne e il governo, ma addirittura spacca il movimento sindacale, indicando i leader di Cisl e Uil come “nemici di classe”.

 

È il solito pericolo messo in atto da chi parte da una concezione riduttiva dell’uomo, da chi non vuole partecipare a un progetto comune. È il solito pericolo di chi, nelle grandi crisi, innesca una spirale di contrapposizione dura, di toni accesi che alla fine sfociano nella violenza, spesso non solo verbale.

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