La scuola e la formazione in che misura stanno aiutando al superamento della crisi attuale? Difficile sottrarsi a questa domanda. Imprese e sindacati, mondo politico e tessuto scolastico, al di là delle polemiche legate ai “tagli” degli organici, sono tutti concordi nel considerare la scuola come la risorsa prima per contribuire a far uscire il nostro Paese dalla crisi globale.



Ma non basta parlare di scuola, bisognerebbe porre l’accento sulla qualità dell’offerta formativa. Qui cominciano le prime difficoltà. Perché certi termini sembrano ancora tabù: selezione per merito, principio di responsabilità, centralità dello studente che apprende e non dei docenti che insegnano, razionalizzazione delle risorse umane e materiali (per i noti vizi della pubblica amministrazione), ecc.



Perché è giusto ribadirlo: tutte le scuole sono buone, ma ci vuole qualcuno che si assuma la responsabilità di verificarlo concretamente (la bontà, l’efficienza, l’efficacia, la congruità tra proposta e risposta). E poi, senza il grande discorso, che fa fatica a entrare nei convenevoli dei collegi dei docenti e dei consigli di istituto, dell’attenzione verso le attitudini dei nostri ragazzi, della passione da sollecitare, delle mille attenzioni da far crescere, tutte le belle intenzioni rischiano di rimanere lettera morta. Perché la scuola migliore è quella che appassiona, che scatena l’intelligenza e la curiosità, che domanda sempre oltre le risposte date dagli stessi docenti o dai manuali in dotazione. La scuola, cioè, come vera opportunità di crescita umana e di prospettiva concreta nel mondo del lavoro per i nostri ragazzi.



Oggi, dunque, tutti hanno capito che occuparsi di scuola è occuparsi di futuro. Ma, altrettanto, (quasi) tutti hanno capito che non è possibile non far niente per riformare un sistema scolastico che è vecchio, lontano dalla realtà, chiuso in se stesso: norme vecchie, confuse, slegate dal principio di responsabilità, indifferenti alle domande “quale lavoro con questo titolo di studio?” e “quali i posti di lavoro più richiesti oggi?”, “quali attitudini e capacità da sottolineare in vista di contesti di lavoro che oggi nemmeno ci immaginiamo?”.

La scuola, è sempre bene ricordarlo, deve formare i cittadini di domani, ma la vera formazione non può essere astratta, indifferente cioè al profilo di “occupabilità” di un titolo di studio. Oggi manca proprio questa attenzione. Noi dobbiamo aiutare i ragazzi a fare scelte funzionali sì alle loro attitudini, ma attentissime alle richieste del mondo del lavoro. Verso cioè sbocchi a breve, medio e lungo termine. L’obiettivo deve essere chiaro per tutti: ogni ragazzo deve trovare la propria strada nella vita con le competenze necessarie per la sua piena realizzazione.

Chi si trova in frontiera, a gestire la scuola reale, quella che dovrebbe privilegiare sempre la bontà dell’offerta formativa, ha una precisa esigenza: ribadire costantemente la centralità dello studente. Questo è sempre bene ribadirlo, per il richiamo al principio di responsabilità, mentre nella scuola, come nella pubblica amministrazione, vale il principio della irresponsabilità di fatto. Noi valutiamo gli studenti, ma nessuno valuta i docenti, gli ata, i presidi.

 

Una scuola attenta alla centralità dello studente e delle famiglie ha bisogno dunque non di rattoppi, ma di un ridisegno di ruoli e competenze. Provo a sintetizzare le riforme necessarie per rendere la scuola effettivamente al servizio dei ragazzi, delle famiglie e delle diverse dinamiche sociali: introdurre la carriera dei docenti (su tre livelli: docente alle prime armi, docente ordinario, docente esperto), eliminare il precariato con l’eliminazione delle graduatorie (come è già negli altri Paesi, con assunzione diretta), introdurre una nuova governance con un consiglio di istituto che governi concretamente la scuola, anche con la presenza di esterni, rendere centrale il ruolo guida del dirigente scolastico come direttore generale con poteri reali, eliminare la conflittualità creata con la RSU rendendo regionale la contrattazione integrativa, assegnare al collegio dei docenti un ruolo meramente didattico, abolire il valore legale del titolo di studio costringendo le scuole a misurarsi sulle competenze effettive spendibili, esame di maturità a 18 anni come in tutta Europa (a parte la Polonia), introdurre un sistema di valutazione per docenti, ata e presidi con un codice deontologico, dare potere di assunzione di docenti e ata solo alle singole scuole.

 

Gli insegnanti italiani sono troppi, più di un milione, di età avanzata (l’età media è sui 50 anni), in maggioranza donne. Il rapporto docenti/allievi è tra i più bassi d’Europa, sui 10 a testa. I plessi scolastici sono circa 10.000 distribuiti in 57.000 edifici, uno ogni 1000 abitanti. Guidati da “dirigenti” che dirigono poco o nulla. I docenti arrivano alla cattedra in modo complicato, dopo un percorso lungo, e i presidi non possono far nulla o quasi se alcuni docenti non sanno insegnare. Trecentomila sono gli aspiranti nelle graduatorie “permanenti”, cioè senza selezione dei migliori. Senza dimenticare che ogni anno un docente su quattro cambia scuola.

 

A fare da cornice a questo moto innovatore devono essere le Regioni, sulla base del rinnovato Titolo V della Costituzione (legge n.3 del 2001). È un cantiere aperto, l’importante è che tutti si sentano coinvolti, per il bene dei nostri ragazzi e del sistema Paese.