Donne al lavoro, un percorso a ostacoli. La sfida è oggi superarli, ma soprattutto inventarsi nuove piste per arrivare al traguardo. Parola di Cecilia Spanu, tra le ideatrici di un progetto per ora soltanto lombardo, Moms@work, studiato insieme a Gi Group per aiutare donne qualificate e motivate a rientrare nel mondo del lavoro e per aiutare le aziende a capire e a cogliere i vantaggi del lavoro flessibile. Fornendo a entrambi servizi di recruitment e consulenza specializzati.



Quali possibilità ci sono, oggi, per una madre che voglia rientrare al lavoro e conciliare questo impegno con la famiglia?

In questo momento ci sono effettivamente forti difficoltà sul mercato e le donne-mamme hanno ostacoli ulteriori da superare. Si tratta però di inventarsi strade nuove. Aiuterebbe che le donne uscissero dai vecchi schemi, come la necessità di trovare a tutti i costi un part time che vada dall’ora in cui il bimbo entra all’asilo all’ora in cui esce. Bisogna pensare a tutte le posizioni contrattuali possibili – e sono tante – e, perché no, arrivare a immaginare persino un percorso imprenditoriale. Senza dimenticare che si ha una marcia in più da offrire al datore di lavoro. Mi spiego con un esempio: per alcune posizioni in azienda, come quelle di una certa responsabilità e destinate a progetti specifici, gli uomini non vengono neanche presi in considerazione, le donne sono considerate più idonee. Non ci sono poi solo le quattro mura di un ufficio, per realizzarsi professionalmente. Anche questo cambiamento di mentalità è conciliazione.



Di che cosa avrebbe bisogno invece una madre che resta nel mondo del lavoro?

La crisi ha reso le aziende più “timide” in fatto di politiche di conciliazione. Sono poche le donne che “resistono” ma se fino a poco fa la conciliazione era un obiettivo che pareva irraggiungibile, spesso basta che le aziende siano informate del ventaglio di possibilità che hanno davanti. Per chi resta al lavoro, il punto è negoziare a livello individuale senza per questo appesantire l’azienda. E questo è un discorso culturale molto impegnativo, l’Italia è indietro da questo punto di vista. Moltissime piccole e medie imprese non prendono neanche in considerazione l’argomento conciliazione, pensano non convenga. Le grandi aziende cominciano invece a capirne i vantaggi.



 

In concreto, quali strumenti ha a disposizione una donna per conciliare professione e famiglia?

In termini organizzativi, esistono i diversi tipi di part time (orizzontale, verticale o misto), ma non solo. C’è il poco utilizzato job sharing, che offre a due lavoratori la possibilità di condividere un posto full time. Ci sono la flessibilità di orario e i meccanismi di compensazione che permettono ai lavoratori di accantonare le ore di straordinario svolte in una banca delle ore. Poi si va dalla compressione di orario, che privilegia alcuni giorni settimanali, alla gestione autonoma dell’orario. C’è poi il telelavoro, che oggi grazie alle nuove tecnologie permette di seguire il lavoro da qualsiasi postazione fisica. Infine, esistono i voucher di cura (per baby sitter o servizi vari) e i servizi, come per esempio il nido aziendale o il supporto nel disbrigo delle pratiche.

 

Dal punto di vista legislativo qual è la situazione?

 

L’orizzonte è quello della legge 53 del 2000. Ad oggi, in seguito alle modifiche apportate, manca un regolamento di attuazione, che a breve dovrebbe essere sbloccato. Verranno da quel momento in poi finanziati i progetti di conciliazione. È una legge che giudico buona, anche se complessa dal punto di vista burocratico per la presentazione dei progetti. Si sta lavorando per uno snellimento. La Regione Lombardia sta poi lavorando a progetti sperimentali per fornire di voucher le mamme che entrino in azienda o che chiedano flessibilità. Sono fondi che fanno parte dei 40 milioni di euro stanziati dal ministro Mara Carfagna. C’è infine la legge 125 del ‘91, che storicamente sostiene l’imprenditoria femminile tramite finanziamenti. Fino al 30 novembre c’è la possibilità di presentare progetti e lo spettro preso in considerazione è cambiato recentemente per favorire le aziende che promuovono al loro interno l’occupazione femminile.

 

Che cosa, in base alla sua esperienza, andrebbe perfezionato?

 

Dovrebbe esserci un’azione bilaterale: un aiuto alle aziende affinché attuino strumenti di flessibilità o di conciliazione, ma anche un supporto per le mamme stesse, che necessitano di suggerimenti e supporto. Penso ad esempio alla creazione di strumenti semplici e veloci che permettano alle madri di accedere a una formazione professionale. E non parlo di un semplice corso di computer, ormai superato, ma di un aiuto a rimettersi in gioco, a costruire una nuova professionalità. Uno strumento insomma che dia alla donna le chiavi per ricollocarsi nel mondo del lavoro.

 

C’è un Paese in particolare a cui l’Italia dovrebbe far riferimento secondo lei?

 

Quando si parla di donne e lavoro in tanti fanno riferimento alla Svezia e ai paesi nordici. Ma il modello non è un paese dove i padri stanno a casa per permettere alle donne di lavorare. Paradossalmente negli Stati Uniti ci si avvicina di più a quello di cui avremmo anche in Italia bisogno. Le madri che perdono il lavoro negli Usa se ne inventano un altro. C’è meno tutela, certo, ma nei fatti più opportunità per chi ha nuovi progetti. Non basta implementare gli asilo nido e il telelavoro. In Europa, la Francia offre in questo senso molte opportunità: dai contributi alle mamme che restano a casa per alcuni mesi con i bambini, al part time molto più diffuso che in Italia, agli asilo nido che costano poco.