Per il momento non è che un voto. Ma il pronunciamento del Parlamento di Strasburgo nella votazione di mercoledì, in materia di sostegno alla famiglia – in particolare alle madri lavoratrici – se pure non rappresenta in sé un atto legislativo compiuto (come si potrebbe al contrario pensare leggendo i quotidiani italiani) indica chiaramente una direzione.
Esprimendosi positivamente sulla proposta socialista, il Parlamento ha scelto di tutelare la maternità e la paternità intervenendo sugli obblighi: obbligo per le lavoratrici europee di astenersi dal lavoro per almeno venti settimane (termine minimo già previsto in Italia); obbligo per i datori di lavoro e i welfare nazionali di corrispondere loro il 100% della retribuzione per tutto il periodo (in Italia siamo attualmente all’80%); obbligo per i padri di condividere l’astensione con le madri per almeno due settimane dopo il parto.
Una manna dal cielo? Di fronte alla proposta socialista, gli eurodeputati popolari hanno avanzato il dubbio che procedere per obblighi e per misure positive possa sortire un effetto contrario a quello auspicato, e ripercuotersi sull’appetibilità della forza lavoro femminile e genitoriale. Un dubbio che riecheggia nelle dichiarazioni degli industriali (inclusa la nostrana Confindustria), che hanno paventato oneri crescenti per i datori di lavoro – specialmente in un momento di crisi come quello attuale.
In effetti, il prolungamento dell’assenza obbligata delle lavoratrici, la retribuzione piena di questa assenza, ma anche l’estensione (sia pure limitata) dell’assenza ai padri lavoratori, potrebbero incidere negativamente (almeno nell’immediato) sui conti delle imprese e su quelli dei paesi Ue. Soprattutto, potrebbero scoraggiare ulteriormente l’assunzione non solo delle donne, ma, se si affermasse in tutta la sua portata l’equiparazione tra padri e madri, dei giovani tout court in procinto di mettere su famiglia. Più che tutelare le famiglie europee, insomma, il provvedimento rischierebbe di decimarle.
Eppure, in un’organizzazione del lavoro fondamentalmente basata sulla rigidità, l’introduzione di ulteriore rigidità sembra l’unico modo per far valere le ragioni della famiglia. L’obiezione confindustriale apparirebbe più fondata, se non si tenesse conto del fatto che la flessibilità lavorativa – intesa non solo come flessibilità in entrata e uscita dal mercato del lavoro, ma soprattutto come elasticità di gestione degli orari, dei luoghi e delle modalità lavorativi – nel nostro paese (così come in altri membri Ue) è pressoché sconosciuta: misure come il part time, il telelavoro, l’elasticità degli orari sono poco più di un miraggio. Un simile contesto favorisce lo sviluppo di un circolo vizioso: all’ingessatura del sistema si risponde con l’ingessatura delle tutele, che a loro volta scatenano una reazione di rigetto nel sistema stesso.
Più fecondo, e lungimirante, sarebbe allora lavorare da entrambe le parti all’eliminazione dei vincoli, e aprire decisamente alle misure di flessibilità lavorativa sopra citate: offrendo a entrambi i genitori lavoratori la possibilità di scegliere in una pluralità di opzioni (dal congedo più o meno prolungato alla prosecuzione dell’attività lavorativa tra le mura domestiche, dalla riduzione dell’orario di lavoro nei primi anni di vita dei figli alla ripresa lavorativa immediata, previo affidamento del bambino a operatori o servizi per l’infanzia, pubblici o privati).
Proprio questo avviene, del resto, nei paesi europei più virtuosi, dove peraltro i congedi materni e paterni sono ben più avanzati rispetto al provvedimento Ue. Ma perché questo patto di flessibilità funzioni bisogna fare i conti con le molteplici forze che vi si oppongono, tanto sul versante imprenditoriale quanto su quello sindacale, entrambi per ragioni diverse affezionati alla rigidità. Molto più facile, e veloce, affiancare nuovi paletti a quelli già esistenti: e pazienza se il rischio è quello di trovarsi, prima o poi, rinchiusi da una palizzata che inesorabilmente separa la famiglia e il lavoro.