Sergio Marchionne non ha parlato da italiano. Gianfranco Fini se ne rammarica, ma che male c’è? Una volta tanto conviene riporre l’amor di patria e lasciare spazio alla fredda ragione.

L’amministratore delegato di Fiat ha parlato chiaro senza politichese né birignao da economista. Ha parlato come chi guida un’azienda ormai pienamente multinazionale in un mercato mondiale dove salari, prezzi, profitti, condizioni di lavoro e qualità del prodotto sono comparabili.



Il general manager dell’Ikea, Ton Reijners, ha detto cose simili a Panorama Economy accusando l’ostilità dei comuni, la burocrazia, l’incertezza normativa: “Vogliamo ancora investire in Italia, ma se avremo tanti problemi non resteremo a lungo”. Marchionne, dunque, non è sceso in campo solo in quanto manager dell’auto o “metalmeccanico” (così si è definito davanti a Fabio Fazio con una delle poche concessioni all’autocompiacimento). La sua campana suona per tutti.



La levata di scudi a destra e a sinistra dimostra che nel fondo ha ragione l’ad della Fiat. Perché mai in Italia si deve lavorare meno e peggio che in Germania, in Francia o negli Stati Uniti? Non è una dannazione antropologica, in altre fasi storiche accadeva esattamente il contrario. Ciò vale per la Fiat che Vittorio Valletta consegna a Gianni Agnelli nel 1966 seconda in Europa dopo Volkswagen, classifica raggiunta di nuovo vent’anni dopo sotto il pungo di ferro di Cesare Romiti. Si dirà: altri tempi, quelli sì, in cui la Fiat era protetta. Oggi competere è più difficile, ma proprio per questo non si può più nascondere la testa sotto la sabbia.



Secondo l’indagine Confindustria-Mediobanca-Unioncamere, nelle medie imprese il valore aggiunto netto per dipendente s’aggira sui 59 mila euro in Germania, sui 52 mila in Italia; dunque non c’è una grande distanza. Il costo del lavoro unitario è 46,7 in Germania e 37,8 in Italia; il margine di profitto sul valore aggiunto è 19,6% in Germania e 23,3% in Italia. Non esiste, dunque, un problema di competitività, anzi è conveniente produrre in Italia. La situazione è del tutto diversa invece nelle grandi aziende, le poche rimaste. Questo è il vero punto debole se vogliamo restare ancora un paese industriale. E non diventare un subfornitore di componenti per le imprese tedesche.

Gli aiuti di stato non sono serviti a niente, anzi hanno fatto del male come mostra lo studio della Banca d’Italia sull’industria italiana. Dal 2000 al 2007 vengono concessi 53 miliardi, suddivisi in 88 interventi. Ma non hanno salvato l’occupazione né aumentato il valore aggiunto. Rovesciando l’argomento che gli statalisti usano nel rispondere a Marchionne, potremmo dire che la bassa competitività è anche la conseguenza di assistenzialismo e salvataggi che hanno ritardato le scelte da fare.

 

Quali? Aumentare lo sfruttamento o intaccare i diritti costituzionali di chi lavora, come sostiene la Fiom? A parte che di tutele non di diritti bisogna parlare, come ha ricordato Pietro Ichino, la questione non va posta in questi termini. Il problema è lavorare in modo diverso, adattandosi a quel modello flessibile diventato ormai il nuovo paradigma. Partito dalla Toyota, l’ha resa numero uno al mondo, è stato applicato ovunque, anche negli Stati Uniti dopo il collasso delle Big Three.

 

Steven Rattner, lo zar dell’auto che ha negoziato l’ingresso della Fiat in Chrysler, scrive nel suo libro “Overhaul” che il governo non avrebbe mai concesso i quattrini dei contribuenti senza che la nuova impresa fosse competitiva con i produttori giapponesi. Marchionne affronta a muso duro lo Uaw, il potente sindacato dell’auto, dicendo che i lavoratori debbono accettare “una cultura della povertà invece di una cultura dei diritti acquisiti”, suscitando lo sdegno di Ron Gettelfinger, presidente del sindacato il quale, ad accordo concluso, rifiuta di stringere la mano al rappresentante della Fiat.

 

“Sergio si trasforma da cucciolone in pit bull”, scrive Rattner. All’inizio il suo progetto non aveva convinto né JPMorgan, principale creditore di Chrysler, né il sindacato. Lo stesso team di Obama era rimasto scettico e sospettoso su quest’uomo con una sola idea fissa: lui era l’unico in grado di salvare Chrysler così come aveva salvato Fiat. Adesso, a Detroit gli operai lo applaudono non solo come il loro padrone, ma come il loro capo. Anche perché alla fine, dopo aver rotto una tradizione contrattuale che durava da decenni trasformando il salario in variabile indipendente, scrive Rattner, ha poi accettato condizioni (soprattutto sul welfare aziendale) che sembravano perdute per sempre. Dunque, Marchionne ha fatto la parte del negoziatore tosto e astuto che più gli si addice.

 

E tuttavia è limitativo prendere la sua chiamata alle armi come una tediosa e pignola riproposizione di modelli organizzativi nell’industria post-fordista. Il messaggio è rivolto a tutti gli imprenditori, alle forze sociali, ai politici, a chiunque non voglia rassegnarsi all’emarginazione dell’Italia nel nuovo difficile mondo che sta emergendo dalla grande crisi. Un po’ come i tea party negli Stati Uniti suonano la sveglia contro il fardello del debito, il ritorno del leviatano e l’ingiustizia fiscale, senza fornire una ricetta onnicomprensiva di politica economica, il capo della Fiat chiama a raccolta gli spiriti vitali dell’industria e dell’economia senza per questo offrire la panacea. Vedremo se ce ne sono ancora. Le prime reazioni non lasciano molto sperare.

Marchionne fa il suo mestiere e non si sforza di sembrare simpatico o compiacente. I sindacati facciano il loro. La Fiat non ha tutte le ragioni. È vero che negli ultimi anni ha prodotto solo pochi modelli di successo. E anche se Marchionne dice di avere i cassetti pieni, finora non li ha aperti. Ha ammesso che l’impianto in Serbia è stato finanziato dalla Bei, la Banca europea per gli investimenti e l’operazione Chrysler è stata fatta con i soldi di zio Sam. I suoi azionisti non sembrano prodighi di denari in questo periodo e i maligni sostengono che lo lasciano fare finché non chiede loro un centesimo.

 

Se è così, si comprende lo scetticismo dei lavoratori di fronte agli impegni sugli investimenti futuri o alla promessa di aumentare i salari. Tuttavia, è meglio non cercare alibi e andare al sodo. Marchionne è un abile giocatore. Benissimo, ma anche contro il gambler più spregiudicato la tattica migliore per scoprire il bluff è chiamare “vedo”. Fuor di metafora, partiti e sindacati farebbero meglio a cogliere e mettere a frutto per l’Italia la provocazione del canadese con il pullover nero.

Leggi anche

REPLICA/ Ma quale "miracolo", la Fiat di Marchionne piace solo alla finanzaFIAT/ Il "miracolo" di Marchionne che l'Italia non vuoleFIAT/ Ugo Bertone: le "tentazioni" che ancora dividono l'Italia da Marchionne