Le parole pronunciate domenica da Sergio Marchionne nel corso della trasmissione “Che tempo che fa” continuano a far discutere. Ieri è arrivata la dura dichiarazione del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani: «Cosa sarebbe successo in Germania se l’amministratore delegato di un grande gruppo avesse parlato in televisione e non davanti al suo comitato di sorveglianza? In Germania lo avrebbero cacciato». Eppure è proprio guardando alla Germania, ci spiega Francesco Forte, che si può comprendere la posta in palio per l’Italia nel cosiddetto “modello Marchionne”. «La Germania – ci dice l’economista in questa intervista – è riuscita a far crescere il suo Pil e ad abbassare il tasso di disoccupazione proprio in virtù di cambiamenti contrattuali, consentiti da uno schema meno rigido del nostro», quello che in fondo vorrebbe l’amministratore delegato di Fiat.



Professore, Marchionne domenica ha snocciolato dati e usato espressioni che hanno fatto quasi pensare all’Italia come a un paese di “serie B” dal punto di vista economico. Cosa ne pensa?

Marchionne ha fatto riferimento a un fatto specifico: in Italia, a causa del rifiuto da parte della Cgil di utilizzare contratti aziendali (che in altre realtà vengono utilizzati) nel settore metalmeccanico, non sono possibili il lavoro notturno e una serie di accorgimenti che permettono il massimo utilizzo degli impianti. Senza questo schema, che viene usato anche in Germania, la produzione di automobili in Italia è anti-economica. Marchionne non ha quindi sostenuto che da noi in generale non convenga produrre, ma che l’industria automobilistica nel nostro paese non riesce a decollare perché non si sono introdotte quelle regole sul lavoro che esistono, per esempio, nel settore tessile e che permettono di generare un’alta produttività.



Eppure all’ad di Fiat non sono state risparmiate critiche per quel che ha detto. Basti pensare alle dichiarazioni di Epifani di ieri.

Non trovo giustificata questa ostilità nei suoi confronti. Il problema della grande impresa industriale in Italia deriva dal fatto che il forte valore dato alla contrattazione collettiva nazionale, che la stessa Confindustria ancora in maggioranza appoggia, ostacola l’uso dei contratti aziendali, che sono invece sostenuti in modo fermo dalla Cisl, che per il fatto di seguire questa linea è oggetto di attacchi. Marchionne non propone alcun “contratto cinese”, anche perché si tratta di un modello già in uso a Detroit e in Germania, e spesso anche nella piccola e media impresa italiana. Non dimentichiamo che la Germania è riuscita a far crescere il suo Pil e ad abbassare il tasso di disoccupazione proprio in virtù di cambiamenti contrattuali, consentiti da uno schema meno rigido del nostro.



Sentendo le sue parole, mi par di capire che si possa parlare di un’Italia divisa in due, sia geograficamente che a livello produttivo. È così?

Sì, c’è una divisione “verticale”: da un parte la piccola e media impresa che è produttiva e ha successo sui mercati esteri, dall’altra la grande impresa manifatturiera (che ormai in Italia è identificabile con Fiat) che invece arranca. C’è poi una spaccatura “orizzontale”, dato che al Sud la grande impresa, come pure quella media, fa più fatica a operare, perché ci sono costi del lavoro da economia sviluppata, come quella del Nord Italia, e condizioni di produttività bassa, determinata non esclusivamente dalla manodopera, ma anche da deficit infrastrutturali. Un’articolazione contrattuale adeguata potrebbe aiutare a risolvere la situazione, anche se ci sono altri problemi di tipo sociologico-culturale.

 

Quali?

 

L’operaio del Nord ha una sua cultura e tradizione di cooperazione nella vita dell’impresa che nel contesto del Sud sarebbe tutta da creare. Stessa cosa si può dire per l’atteggiamento dell’imprenditore. Si può dire in sintesi che al Sud manca la cultura d’impresa che invece c’è al Nord. Purtroppo c’è anche un problema a livello di rappresentanza dei lavoratori, dato che spesso al Sud il capo sindacale non è una persona cui gli altri lavoratori si rivolgono se hanno bisogno, ma una sorta di “boss” che si sente in diritto di dire agli altri cosa fare o non fare. La fabbrica deve essere però gestita dall’imprenditore. E uno come Marchionne si sta prendendo grossi rischi.

 

Perché?

 

Perché per rendere produttivi gli impianti occorre fare degli investimenti, cioè correre un rischio, e perché raddoppiare la produzione in Italia (come si vuol fare con Fabbrica Italia) non è cosa da poco. Tuttavia si tratta di risultati possibili da raggiungere. I livelli di produzione prospettati, infatti, non sono lontani da quelli della Fiat del passato. Inoltre si tratta di 600-700 mila automobili in più rispetto a oggi, che per un gruppo che produce in molte parti del mondo e pensa di arrivare ai 5 milioni di unità prodotte non dovrebbero essere un grosso problema. Se però dovesse continuare a trovare resistenze, Marchionne potrebbe spostare la produzione di queste 600-700 mila automobili altrove, chiudendo alcuni impianti in Italia, lasciando in funzione magari solo Cassino, Termoli e Mirafiori. E sarebbe un peccato, perché il Sud è ricco di manodopera e di quegli spazi che sono necessari per uno stabilimento di grandi dimensioni.

 

Che conseguenze potrà avere l’esito di questa sfida di Marchionne sugli investimenti esteri in Italia?

L’investimento estero o multinazionale tarda ad aversi nel nostro paese. In particolare nel Sud, che potrebbe essere invece una zona molto interessante tenendo conto delle prospettive di sviluppo del Nord Africa (Egitto, Turchia, Marocco). Se la sfida di Marchionne verrà accolta potrà indurre molti altri a venire. Se questo non accadrà, allora il Sud sarà condannato. Ma siccome nella struttura federalista che si sta delineando ci sono delle contribuzioni integrative per il Sud, è interesse di tutta l’Italia che ci sia sviluppo nel Mezzogiorno.

 

Secondo lei, come andrà a finire?

 

Sono convinto che i lavoratori meridionali risponderanno bene, anche perché quelli di loro che emigrano nel Nord Europa o in America diventano operai estremamente produttivi, seri e impegnati. Le qualità quindi ce le hanno. Se poi la Fiat dovesse avere successo, è molto probabile che i suoi dipendenti possano avere retribuzioni più alte. Non dimentichiamo infine gli effetti positivi che si potrebbero generare per l’indotto.

 

(Lorenzo Torrisi)

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