Alle orecchie dei più, il termine “telelavoro” evoca il passato. Un passato recente, come quello della New Economy, nel quale sembrava che ogni cosa reale – comprese le aziende, i loro lavoratori, e il valore da essi prodotto – dovesse divenire virtuale e trasferirsi in Rete. O un passato più lontano, come quello in cui le casalinghe che volevano guadagnare qualche soldo, per arrotondare il bilancio familiare o per concedersi qualche piccola spesa personale, si improvvisavano venditrici telefoniche dedicandosi al cosiddetto “lavoro a domicilio”.
Ma il telelavoro nel 2010 non è più né l’una, né l’altra cosa: la prima, superata dai ripetuti rovesci dell’economia, a partire dall’esplosione della bolla di Internet; la seconda, resa obsoleta non tanto dalle nuove frontiere effettive dell’occupazione femminile (in calo nel 2010 rispetto all’anno precedente) quanto dalle aspirazioni più evolute delle donne lavoratrici.
Quando oggi si parla di telelavoro, si intendono piuttosto le nuove soluzioni, consentite dalla tecnologia e supportate da una concezione innovativa della produttività, che agevolerebbero la conciliazione tra famiglia e lavoro. E siccome se ne parla raramente, il convegno su “E-work, telelavoro, lavoro mobile” organizzato lo scorso 20 ottobre a Monza dalla Provincia nell’ambito dell’“Ottobre in Rosa” assume un’importanza ancora maggiore: testimoniata dalla convergenza, attorno alle esperienze maturate e alle domande aperte, di imprese, sindacati, istituzioni e professionisti delle risorse umane – come Cecilia Spanu e Anna Zavaritt, consulenti del progetto Moms@work di Gi Group.
La chiave della questione sta nell’adottare combinazioni flessibili di tempi e spazi, non più vincolati alla presenza nella sede di lavoro. Una soluzione che, come ha ricordato Anna Maria Ponzellini, sociologa del lavoro, avvantaggerebbe non solo i lavoratori – in particolare quelli che hanno impegni di cura, ad esempio dei bambini o degli anziani -, ma anche le imprese, e più in generale la società.
Lo sanno bene le aziende che hanno già abbracciato uno dei possibili modelli di delocalizzazione dell’attività lavorativa parziale, con presenza in ufficio per almeno una parte della giornata, o totale, il che implica una valutazione dell’attività totalmente basata sui risultati e sulla motivazione, invece che sulla presenza. Tra queste aziende rientrano realtà molto diverse tra loro: una multinazionale privata come la Cisco, che ha presentato futuribili strumenti di lavoro da remoto, come le videoconferenze; ma anche una piccola organizzazione pubblica, l’Azienda Ospedaliera di Pavia, con dieci dipendenti dei Sistemi Informatici in telelavoro che in un anno risparmiano circa 600 ore di viaggio, più di 7000 euro di spese, ed evitano di immettere nell’atmosfera quasi 6000 Kg di CO2.
C’è l’esempio virtuoso dell’Astrazeneca, che ha implementato il telelavoro tra i suoi dipendenti fin dal 2002 – lo stesso anno in cui veniva ratificato l’accordo quadro europeo in materia, e due anni prima del suo recepimento in Italia, come ha ricordato Rita Pavan della Cisl -; e ci sono i casi delle aziendine brianzole, di cui ha parlato Ambra Redaelli (presidente del Comitato Piccola Industria di Confindustria Lombarda), nelle quali le macchinette del caffè sono dotate di timer, per impedire ai dipendenti di perdere tempo con la colazione alle otto del mattino.
L’attenzione ai dipendenti in quanto individui dotati di una propria vita privata è uno degli elementi decisivi per l’inserimento nella classifica dei “Great places to work”, le 100 migliori aziende quanto a qualità della vita dei lavoratori, stilata anche in Italia in base alle analisi sul clima aziendale e alle politiche dichiarate dalle aziende. Tra le migliori aziende del 2010 spiccano le 20 che hanno esteso programmi di flessibilità a tutti i propri collaboratori, le 9 che hanno introdotto progetti strutturati di telelavoro, ma ancor più le 8 che consentono forme di telelavoro informale a tutti i lavoratori e le 5 che lo fanno almeno per alcuni ruoli e livelli inquadramentali.
Si tratta ancora di una minoranza rispetto al totale: una minoranza in crescita lenta, ma costante, che fa ben sperare che la percentuale di telelavoro dell’Ue, passata dal 5% al 7% dal 2000 al 2005, possa tra non molto conoscere un’accelerazione più decisa. Per il bene dei lavoratori, e per quello del lavoro.