Si è finalmente concluso il 19 ottobre il riesame del Parlamento al cosiddetto “Collegato Lavoro” dopo il messaggio del Presidente della Repubblica dello scorso 31 marzo. Un testo senza dubbio molto travagliato e discusso, come dimostra lo stesso sofferto iter legislativo, di oltre due anni di rinvii fra una Camera e l’altra. Un testo che – come ha ricordato lo stesso relatore on.le Cazzola – si caratterizza senz’altro per la miscellanea di norme anche su temi non omogenei, che vanno dagli ammortizzatori sociali, ai servizi ispettivi, all’apprendistato, al mercato del lavoro, al lavoro sommerso, all’occupazione femminile e via dicendo.



Un testo, tuttavia, che nonostante i rilievi formali da alcune parti formulati è destinato probabilmente ad affermarsi come uno dei più importanti della legislatura. Il cuore del provvedimento è senza dubbio rappresentato dalle norme in materia di contenzioso sul lavoro, che costituiscono un corpo di disposizioni coerente e unitario. È indiscusso che la crisi della giustizia civile non abbia risparmiato nemmeno le controversie di lavoro. Una causa di lavoro dura intorno ai due anni e mezzo. In alcune regioni la media si avvicina addirittura a quattro. Per conoscere le sorti di una controversia occorre attendere mediamente, tra il primo e il secondo grado di giudizio, circa cinque anni, che possono poi arrivare a sette in caso di ricorso in Cassazione.



È, questo, un dato di partenza su cui convergono le opinioni di pressoché tutti gli addetti ai lavori. Come pure concorde è il rilievo sulla particolare gravità che questa situazione riveste nel settore lavoristico. Aspettare per anni una decisione, in un rapporto che si regge sul soddisfacimento dei bisogni primari della persona, significa negare alla radice l’effettività delle tutele. I tempi di attesa e l’incertezza delle regole gravano anche sulle decisioni dei datori di lavoro e la stessa competitività delle nostre imprese. Rimanere per un tempo di quasi cinque anni nella incertezza di veder convalidata o meno una decisione organizzativa in materia di assunzione o licenziamento aumenta in modo spropositato l’entità dei risarcimenti e alimenta una imponente fuga nella economia sommersa.



Le divergenze di opinioni si registrano, piuttosto, sulla modalità in cui il problema vada affrontato.

Il testo licenziato dal Parlamento, contrariamente ad altre iniziative della scorsa legislatura, muove dal presupposto per cui la lentezza delle decisioni non dipenda dalle norme del nostro codice di rito, che è anzi un esempio di linearità della procedura basato sui principi di concentrazione delle udienze e di oralità. E’ piuttosto l’elevato numero di processi (oltre 400mila in un anno), dato dall’imponente tasso di litigiosità, a frenare la giustizia.

Da questi presupposti muove il “Collegato lavoro” nell’incentivare il ricorso all’istituto della certificazione dei contratti di lavoro, già introdotto dalla legge Biagi in chiave deflattiva del contenzioso in quanto consente di sottoporre il contenuto di un accordo al vaglio di una commissione competente e terza al fine di accertarne la corrispondenza ai requisiti di legge. La stessa riforma della conciliazione e dell’arbitrato è finalizzata a istituire e rendere operativo un canale alternativo e assolutamente volontario per la risoluzione dei conflitti, già sperimentato e comunemente utilizzato in altri Paesi, ma da sempre osteggiato in Italia.

 

Il testo approvato dalla Camera pare aver attentamente valutato, in punto di arbitrato ma non solo, i rilievi che erano stati formulati dal Presidente della Repubblica volti ad evitare una dismissione dei diritti dei lavoratori. Ribadendo che la via di accesso all’arbitrato è esclusivamente volontaria, la legge stabilisce infatti – onde evitare ogni dubbio sulla genuinità della volontà del lavoratore – che l’accordo fra datore di lavoro e prestatore di lavoro per devolvere le controversie al giudizio arbitrale anziché a quello della magistratura potrà essere concluso solo successivamente all’insorgere della controversia; potrà essere precedente ad essa (tramite la cosiddetta clausola compromissoria) solo se ciò sarà consentito dalla contrattazione collettiva, ma in questo caso l’accordo potrà essere stipulato – peraltro esclusivamente avanti una commissione che certifica la volontà delle parti informandole adeguatamente circa gli effetti di tale clausola – dopo il decorso del periodo di prova o di trenta giorni dalla stipula del contratto di lavoro e, in ogni caso, non potrà riguardare le cause in materia di licenziamento.

 

Né costituisce un arretramento di tutele la possibilità che la decisione arbitrale avvenga secondo le regole di equità piuttosto che secondo le norme di diritto. In primo luogo perché la stessa opzione per una decisione in via equitativa è rimessa all’accordo delle parti. E, in ogni caso, perché la decisione secondo l’equità non si può risolvere in un mero arbitrio, dovendo comunque essere rispettati i principi generali dell’ordinamento ed i principi formatori della materia, derivanti anche dall’ordinamento comunitario.

 

Le stesse norme sulla decadenza per l’impugnazione dei licenziamenti e dei contratti a termine, che riprendono letteralmente disposizioni contenute in un disegno di legge proposto la scorsa legislatura dall’allora maggioranza, certo non accorciano i tempi del processo in sé, ma conferiscono al contenzioso tempi certi. Anch’esse non costituiscono un arretramento delle tutele, essendo i tempi dettati dalla legge (complessivamente undici mesi) più che congrui per valutare l’opportunità dell’instaurazione di una controversia.

 

Il collegato lavoro si appresta quindi a essere legge dello Stato senza ulteriori intoppi. La sua concreta applicazione – specialmente sugli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie – dipenderà dalla volontà, in primo luogo delle parti sociali, delle aziende e dei lavoratori di sperimentare le alternative che la legge offre. Se ben attuata, la legge gioverà a tutti.

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