Nella Prima Repubblica certi politici potenti trovavano lavoro in cambio del fatto che le persone aiutate li avrebbero votati e sarebbero stati a loro disposizione per i più svariati servigi (manifestazioni di massa, iscrizioni al partito, sostegno attivo in campagna elettorale…). Questo fenomeno, a cui è stato il nome di clientelismo, è definitivamente scomparso? Il dubbio rimane di fronte a quanto si fa ancora in certe Regioni e in certi apparati dello Stato per attuare le direttive di certi economisti à la page.



Questi maître à penser, ospiti fissi dei più popolari talk show, editorialisti di punta dei più progressisti giornali, teorizzano che nel mercato del lavoro bisogna operare solo con strumenti di politica passiva attribuendo un salario minimo garantito ai disoccupati e, per il resto, credere nella capacità taumaturgica dei mercati di assorbire nel medio e lungo periodo la disoccupazione, evitando qualunque intervento di politica attiva.



L’esito delle loro direttive è evidente nei settori e nelle Regioni dove è stato attuato: un nuovo clientelismo di Stato, con assunzioni dell’ente pubblico a tempo determinato o indeterminato nei settori più disparati, dalla sanità alle foreste, che però non si impegna per creare lavoro reale e stabile e con effetti disastrosi per il bilancio dello Stato; un asservimento di questi lavoratori ai politici che lo attuano, non diverso da quello della Prima Repubblica; un incentivo alla passività del lavoratore che tende a non cercare un nuovo lavoro vero, o addirittura si oppone a interventi per il ricollocamento in altri settori se ha il sussidio di disoccupazione senza vincoli di formazione o limiti temporali; un indiretto favoreggiamento del lavoro nero per coloro che con il sussidio di disoccupazione decidono di arrotondare senza perdere il sussidio.



Per fortuna i consigli dei nuovi soloni dell’economia sono stati attuati solo in parte e in Italia si è scelta, a livello nazionale e in molte Regioni, una via opposta: quella delle politiche attive per il lavoro contenute nella legge Biagi (colpevolmente ignorata da certi leader politici che l’hanno irragionevolmente equiparata ad un incentivo al lavoro nero); e quella di nuove misure che potrebbero divenire norme se venisse attuato il Libro Bianco sul futuro del modello sociale presentato nel 2009 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e realizzato in accordo con la parte dell’opposizione che fa riferimento alle posizioni sul mercato del lavoro di Tiziano Treu o di Enrico Letta.

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Non si sta certo proponendo di eliminare le politiche passive sul lavoro, fondamentali per tutelare le persone più in difficoltà, ma di riconoscere che in un mercato del lavoro come quello italiano, così complesso e segmentato territorialmente, settorialmente, per posizione professionale e per qualifica, sono fondamentali strumenti come un collocamento più moderno che favorisca l’incontro tra domanda e offerta con strumenti informativi più liberi e capillari; una formazione professionale obbligatoria ai disoccupati per un nuovo collocamento; il sostegno a forme nuove di contratto di lavoro quale il lavoro part-time orizzontale e verticale, il lavoro interinale, i contratti a progetto; una legislazione che favorisca la presenza nel mercato del lavoro, accanto a realtà di diritto pubblico, di realtà di diritto privato, in particolare non profit; l’incentivo alla libertà di scelta formativa dei lavoratori, come quello attuato in Lombardia con strumenti come la dote.

 

Anche perché le capacità taumaturgiche del mercato di assorbire tutta la disoccupazione, semplicemente non esistono, come dimostra il fatto che ormai esistono due mercati del lavoro anche nelle Regioni più sviluppate: il primo, quello delle persone per cui vale lo slogan “dal posto al percorso”, in grado di muoversi autonomamente tra diverse possibilità di lavoro; l’altro, quello delle persone più “deboli”, tra cui molti giovani, coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro a 50 anni, coloro che hanno un handicap fisico o mentale, coloro che non hanno una sufficiente istruzione o formazione professionale, coloro che vivono in Regioni in difficili condizioni economiche, coloro che hanno condizioni familiari particolarmente impegnative che li penalizza sul lavoro.

 

Queste persone rischiano di non entrare mai nel mercato del lavoro in modo sicuro, o di uscirne definitivamente e comunque non saranno mai salvati da un sistema lasciato senza regole. Se si vuole continuare a pensare anche a loro, invece di concentrarsi sulla difesa dei privilegi dei lavoratori di serie A – non giustificati dalla loro produttività o da cause sociali – occorre flessibilità, immaginazione, volontà di graduare interventi diversi per situazione diverse: tutto ciò che gli economisti di certi talk show chiamano “precariato” semplicemente perché ignorano quella realtà che vive fuori dai salotti radical chick dove vivono. Mentre loro discutono, chi può continui a lavorare possibilmente ignorandoli.

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