Nelle prime pagine del corposo documento contenente la proposta di riforma degli ammortizzatori sociali formalizzata ieri dalla Cgil si individua subito la matrice culturale che ha prodotto l’ipotesi di riforma. A pagina 7 si legge: «Anche alla luce delle scelte messe in campo in alcune Regioni va riaffermata la necessaria primazia del soggetto pubblico, insieme con i sottoscrittori dell’accordo alla cui base c’è la richiesta di sostegno al reddito, per indirizzare il lavoratore alle iniziative di politica attiva più appropriate. Lasciare il lavoratore solo, con la “possibilità di scegliere” via internet dove spendere la sua dote pare un’ipotesi sciagurata». Qualche pagina più avanti si chiarisce che «il sistema è pensato in modo universale per i lavoratori, eventuali integrazioni opera della contrattazione (bilateralità) possono essere integrative, mai sostitutive e/o condizionanti delle misure pubbliche».
Sono questi i temi nel quale si osserva la maggiore rottura, innanzitutto culturale, con le altre proposte ora in campo, in primis quella del Governo. Nel recente Piano Triennale per il Lavoro il Ministro Sacconi ha scritto che «al potenziamento e alla estensione degli ammortizzatori sociali si è accompagnata una sostanziale revisione delle logiche di funzionamento del sistema. Incentivando il concorso di risorse private messe a disposizione dalla bilateralità e dai fondi interprofessionali».
Nel Libro Bianco del 2009, manifesto programmatico dell’azione di questi anni, lo stesso Ministro aveva scritto: «Il Welfare State tradizionale si è sviluppato sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva assiomaticamente associato a “morale”, perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali. È stato un grave errore, che ha in parte compromesso l’eredità di un’antica e consolidata tradizione di Welfare Society tipica della società europea e di quella italiana in modo particolare. Oggi, è l’evidenza stessa della crisi che obbliga ad abbandonare le vecchie ideologie per ritornare al realismo di questa visione positiva dell’uomo e delle sue relazioni che suggerisce di cambiare alcune delle logiche cui si è ispirata l’azione pubblica nel campo delle politiche sociali».
Dietro alla partita degli ammortizzatori sociali si gioca un confronto che va oltre le misure di protezione del reddito e che interessa una visione del ruolo dello Stato e della libertà della persona. L’identificazione da parte dei tecnici della Cgil della “possibilità di scegliere” come una “ipotesi sciagurata” sembra nascondere proprio quella antropologia negativa (homo homini lupus) di matrice hobbesiana che è stata protagonista del dibattito estivo incentrato sul motto “Meno Stato, più Società”.
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Non si è così ingenui da non sapere che il disoccupato, soprattutto quello più debole, può rimanere spiazzato nell’utilizzo di strumenti come la “dote lavoro”, ma non è questa ragione per cancellare la possibilità, che è innanzitutto occasione di libertà e di sussidiarietà. La sfida del servizio pubblico (ma anche dei corpi intermedi e del tessuto sociale) è allora quella di orientare e accompagnare il lavoratore nella scelta, ma non di imporla. L’Italia emerge solo negli ultimi anni da decenni di predominio del pubblico nei servizi al lavoro e nelle politiche attive: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Una totale assenza dell’attore pubblico in questi campi, nonostante l’elevato numero di addetti e tante belle sedi provinciali spesso utilizzate più per accogliere convegnisti che aiutare i lavoratori.
Naturale conseguenza della sfiducia nel singolo e ancor più del timore verso il privato (guidato dal solo profitto) è anche il ridimensionamento degli strumenti bilaterali. Quegli stessi strumenti che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sta provando a diffondere responsabilizzando le parti (datori di lavoro e sindacati) anche nella regolazione di settori prima appannaggio solo del pubblico: formazione permanente, riqualificazione, orientamento, collocamento e, per l’appunto, misure di sostegno al reddito. Non si tratta, come alcuni maligni hanno sostenuto, di una bella idea per scaricare sulle parti ciò che non riesce a fare lo Stato, ma, al contrario, è il prendere atto, da parte del decisore pubblico, di non poter arrivare ovunque con interventi di qualità (si pensi alla formazione pubblica tuttora erogata per gli apprendisti).
Queste divergenze culturali determinano le differenze nelle misure tecniche da mettere in campo. Il Piano Triennale del Ministero, preso atto degli effetti della crisi, ha ribadito l’importanza di poter disporre di un assetto adattabile, flessibile e responsabile degli ammortizzatori, capace di rispondere ai repentini cambiamenti del mercato del lavoro e coerente con i vincoli di finanza pubblica. Un sistema su più “pilastri”: da una unica indennità nel caso di interruzione del rapporto di lavoro a forme di sostegno del reddito in costanza di rapporto che possono essere modulate nei diversi settori o nelle diverse dimensioni d’impresa sulla base delle contribuzioni di imprese e lavoratori. La Cgil auspica il contrario: un sistema pubblico e universale senza differenze per i lavoratori per settore di attività, dimensione di azienda, collocazione territoriale, tipologia di lavoro.
Nel progetto di riforma dell’intero diritto del lavoro italiano che è identificato col nome di “Statuto dei lavori” e nel “Collegato Lavoro” di prossima approvazione sono pienamente confermati i due criteri che hanno positivamente contraddistinto il nostro attuale sistema di ammortizzatori sociali: necessaria base assicurativa (obbligatoria o volontaria) per il finanziamento delle erogazioni e, conseguentemente, congruo periodo di lavoro e di versamenti per potervi accedere.
La Cgil progetta invece un sistema basato sull’eliminazione del requisito del biennio assicurativo e con l’unico limite delle 78 giornate di contribuzione (scompaiono l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti e l’indennità di mobilità). L’intero sistema di comporrebbe di due soli istituti, riferiti rispettivamente a chi si trova in imprese in temporanea difficoltà (la Cassa Integrazione) e a chi ha perso il lavoro (il sussidio di disoccupazione).
Un punto in comune è invece il riconoscimento della criticità (ora molto diffusa) della fattispecie del sussidiato che rifiuta un’offerta di lavoro congrua, ma diverso è il trattamento: rigido quello auspicato dal Ministero del Lavoro (perdita del sussidio da subito e possibile causa penale), lascivo quello della Cgil (perdita del sussidio solo al terzo richiamo, dopo una graduale “punizione” economica).
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Nel complessivo la Cgil sembra non essersi accorta di quanto messo già in campo dal Governo, seppure in via emergenziale (ma da confermarsi a breve in una vera e propria riforma), nell’ambito della crisi. L’allargamento della cassa integrazione a settore prima esclusi e a categorie di lavoratori che non ne avrebbero il diritto (si pensi ai lavoratori a progetto) ha ampliato il numero di coloro che hanno ricevuto un sussidio ben oltre le cifre riportate dall’Ires.
Se anche istituzioni internazionali come il G20 di Washington e la Commissione Europea hanno riconosciuto che l’Italia ha dimostrato una tenuta occupazionale al di sopra delle medie occidentali, probabilmente l’efficacia dell’attuale sistema di ammortizzatori sociali non è così debole. Si noti che se l’Italia avesse avuto forme di sostegno al reddito tipiche della c.d. flexicurity (che è il modello sotteso a diverse soluzioni individuate dalla CGIL), incentrate sul sussidio di disoccupazione più che sulla difesa del posto di lavoro, ora osserverebbe tassi di disoccupazione superiori di quasi tre punti percentuali.
Purtroppo è l’osservazione del dato reale la principale caratteristica che manca alle proposte formalizzate in Corso d’Italia, che pure partono dalla preoccupazione per un criticità concreta. È la soluzione a non esserlo.