“I manager che tornano tardi a casa la sera non lo fanno perché amano il lavoro, ma perchè odiano la famiglia”. Detta da chiunque, qualche tempo fa, una frase del genere avrebbe sortito almeno qualche perplessità. Eppure, la stessa frase, enunciata come una provocazione qualche giorno fa, proprio di fronte a una platea di manager o di aspiranti tali, ha riscosso il più fragoroso degli applausi.
Applausi ancora più sentiti e liberatori, quando alla frase si sono accompagnate altre riflessioni; sempre con l’intento di prendere le distanze dalla figura del manager inchiodato alla scrivania per dodici ore al giorno, intento a convocare riunioni a tarda ora pur di non tornare a casa, per la gioia (si fa per dire) dei suoi collaboratori, gli stessi potenziali aspiranti manager.
A fare l’affermazione in questione è stato un sociologo del calibro di Domenico De Masi, accademico insigne, intervenuto alla sessione inaugurale del forum annuale dello IAB Italia (associazione che riunisce aziende, società e operatori impegnati nel comparto della pubblicità online), lo scorso 3 novembre a Milano. Ad ascoltare De Masi c’erano professionisti della comunicazione, esperti di tecnologie e di Internet, in maggioranza trenta-quarantenni: insomma, quelli che una volta si sarebbero chiamati “lavoratori di concetto”, e oggi vengono più simpaticamente definiti “classe creativa”. Se qualche anno fa una simile popolazione si sarebbe riconosciuta nella figura del manager work-a-holic, e ne avrebbe difeso le ragioni, ora non si trattiene dall’irriderla, nella speranza che prima o poi si estingua definitivamente.
Cos’è cambiato? Rispetto a dieci anni fa, alla prima volta in cui De Masi teorizzò l’“ozio creativo” – l’evoluzione del lavoro verso la coincidenza tra attività professionale e divertimento, sempre più frammisto al tempo libero -, il contesto è molto diverso: allora, il messaggio del sociologo si stagliava sullo sfondo della New Economy e delle sue promesse di felicità, di ubiquità, di valore immateriale. Promesse in buona parte disattese negli anni successivi: senza che l’organizzazione del lavoro facesse in tempo a beneficiarne, a evolvere verso una maggiore flessibilità, a svincolarsi da scrivanie e timbrature.
E così, il lavoro che doveva diventare più leggero e vagante si è fatto sempre più greve e impiegatizio, deludendo le aspettative della classe creativa – non solo quelle legate all’innovazione e alla tecnologia, ma anche alla vita privata e alle istanze personali, nel frattempo per loro sempre più importanti.
Gli applausi riscossi a dieci anni di distanza dal discorso di De Masi – incentrato su una serie di (ottimistiche) previsioni di evoluzione sociale – dimostrano che l’esigenza di un cambiamento delle modalità di lavoro è tuttora forte e sentita. I suoi principali testimoni, i giovani professionisti della creatività (stufi di vedersi trattare – sempre per dirla con De Masi – alla stregua di metalmeccanici), nel frattempo sono cresciuti: non solo hanno consolidato una professionalità meno illusoria di quanto si potesse pensare, ma hanno anche messo su famiglia, confrontandosi con i problemi della conciliazione tra vita e lavoro.
Problemi che potrebbero ricavare una spinta decisiva verso la risoluzione, se solo si avverassero alcuni degli auspici del sociologo sulla fine della schiavitù del cartellino. Per questo, a farli annuire entusiasticamente non sono più solo le battute sulle riunioni convocate nel tardo pomeriggio, o le profezie sulla distinzione “finale” tra gli addetti alle mansioni creative e gli addetti alle mansioni ripetitive e manuali; ma anche la prospettiva di poter dedicare buona parte di quel “tempo liberato” alla famiglia, ai figli, a una vita più completa di quanto non sembrasse anche solo dieci anni fa.
La notizia è che a questa vita non aspirano più soltanto gli italici “familisti”, ma componenti sociali più vaste, dinamiche e lungimiranti. Queste componenti, che hanno tradizionalmente intravisto nella tecnologia e nell’innovazione lo strumento di trasformazione sociale ed economica, oggi vedono nello stesso strumento la speranza di una riforma – non più ulteriormente procrastinabile – dell’organizzazione del lavoro, nell’ottica di un’istanza più ampia, più piena, più umana.