Certe notizie non possono non colpire. Penso, da un lato, ai 147.000 posti di lavoro non ancora occupati, cifra che comprende anche 80.000 tecnici specializzati che le nostre aziende non riescono a trovare; e dall’altro alle file infinite nelle scuole e nei concorsi pubblici, con persone, anche non più giovanissime, in attesa del fatidico posto fisso. È evidente che qualcosa non va: anzitutto a livello di formazione di base e di orientamento alle scelte fondamentali nella vita e nel lavoro.



Nel contempo, sappiamo bene che la crisi attuale rappresenta, se la si vuole prendere sul serio, una preziosa opportunità per ripensare daccapo ai temi fondamentali della vita delle persone e del futuro del nostro Paese.

“La risorsa fondamentale per l’impresa non è più rappresentata dal capitale, dalle risorse o dal lavoro, ma dalla conoscenza e dai soggetti che la generano”. Queste le parole usate da F. Drucker, uno dei più importanti pensatori di management del Novecento. Temi ripresi in Italia da Claudio Demattè e Pierluigi Celli.



Oggi, più di ieri, è fondamentale aiutare a scelte che siano in linea con i tempi, per consentire a tutti, in primis alle giovani generazioni, di orientarsi bene nel mercato del lavoro. Se poi vogliamo guardare dal di dentro lo stesso mondo del lavoro, vediamo che ogni persona è più importante delle stesse strutture materiali di un’azienda o di un ufficio professionale.

Il fatto è che queste cose, queste sottolineature, al giorno d’oggi, al di là di tanti discorsi di principio, non sono evidenti, ad esempio, tra gli educatori e tra gli operatori del mondo della formazione di base, cioè nelle scuole. Pochi, in queste realtà, conoscono davvero il mondo del lavoro, per com’è, per quello che è. Molti, anzi, sono ancora vincolati a certi modelli ideologici di vecchio stampo: del resto l’età media dei docenti supera i 50 anni e pochi sono quelli che si lasciano coinvolgere in forme di aggiornamento sui cambiamenti della società attuale.



Pochi, a essere sinceri, hanno maturato quel “pensiero positivo” capace di aiutare tutti ad affrontare le criticità della vita con spirito creativo, propositivo, come inedita opportunità di auto-aiuto. Senza questo spirito positivo si fa fatica ad adattarsi: i giovani, in prima battuta, devono scegliere i lavori possibili, e solo in corso d’opera, nella misura in cui dimostreranno competenze e talento, potranno cogliere al volo opportunità migliori.

Non basta, in poche parole, pretendere, perché si ha un pezzo di carta in mano (diploma o laurea), che lo “Stato” gonfi gli organici per creare posti di lavoro in più, come è invece successo negli ultimi decenni, gonfiando il debito pubblico. La parabola evangelica dei talenti, in questo contesto, può diventare un valido strumento interpretativo? Io credo di sì, ieri come oggi. Questa parabola vale più di tutta la letteratura pedagogica messa assieme.

Se da un lato, quindi, ci sono posti di lavoro ancora liberi e dall’altra ci sono file lunghissime di precari, qualcosa si dovrà pur iniziare a fare. Per orientare, per aiutare, per portare a conoscenza la realtà di fatto, cioè le reali prospettive occupazionali. Quello che in termini europei si chiama “occupabilità di un titolo di studio”.

 

Inutile poi fare certe manifestazioni (dei sindacati o di partito), magari per chiedere allo Stato “più lavoro”, quando non sono state sviluppate quelle competenze realmente richieste dallo stesso mondo del lavoro. Quanta ipocrisia su questi temi!

 

“Di chi si parla, in una azienda, a scuola, in un gruppo sociale – si chiede ad esempio Celli -, quando si insiste su una politica dei talenti come strumento (e strategia) di individuazione e di promozione dei migliori? E, ancora, che rapporto finirà per esserci tra una popolazione selezionata per eccellere e la maggioranza destinata alla normalità, se non si chiarisce lungo quali assi si disloca il rapporto tra eccellenza e normalità, nella presunzione che si possa trovare un punto di equilibrio mobile (instabile?), una sorta di ottimo provvisorio, che forse massimizza i vantaggi organizzativi?”.

 

La parabola dei talenti ci aiuta ad andare oltre la mera logica selettiva dei migliori: in primo luogo perché ciascuno è chiamato a trovare la propria strada nella vita, a eccellere in ragione del proprio “talento”; poi perché non vi è un identikit uguale per tutti; infine perché la diversità, nella disponibilità comunque a fare gioco di squadra, è sempre una ricchezza. “A ognuno il suo”, e “ognuno è artefice del proprio destino”: non sono solo frasi fatte.

 

Il talento, nella vera accezione, non ha nulla a che vedere con un curriculum. L’aver ottenuto un punteggio di 100 alla maturità (o di 110, se si parla di laurea) non necessariamente significa essere un talento, sia pure potenziale, così come non lo è una persona che esprime fortissime conoscenze nel proprio campo d’azione. Il talento ha a che vedere anzitutto con il saper essere della persona nei confronti degli altri, quindi con le sue capacità di relazione, di interazione e di comunicazione.

 

 

 

 

Talento è la capacità, a partire dalle conoscenze e competenze nel frattempo maturate, di essere sempre disponibile ad andare-oltre, con uno sguardo sempre aperto, umilmente disponibile a imparare da tutti, ma consapevole, per responsabilità, che non ci si può non mettersi in gioco.

 

Le tre caratteristiche di un ragazzo di talento le possiamo così riassumere: un ragazzo che è “sveglio” e attento a tutto l’esperibile, che è disponibile sempre a fare “gioco di squadra” e a “imparare ad imparare” per tutta la vita. Capace quindi di adattamento al cambiamento continuo, disponibile a trasmettere entusiasmo e a lavorare in gruppo.

 

Quando un giovane intuisce questo sarà il migliore investimento di un’azienda, ma, prima ancora, la migliore scelta in prospettiva sociale, politica, personale. Un sentiero di iniziazione alla vera maturità di vita.