La situazione del mercato del lavoro resta difficile in Italia. Ce lo conferma anche Stefano Tomasi, Direttore di Business di Gi Group Corporate: i posti di lavoro persi sono maggiori delle assunzioni che stanno aumentando in questi mesi. Concentrarsi sul ricollocamento dei lavoratori è quindi essenziale e, secondo Tomasi, questo potrebbe essere più semplice se si utilizzasse realmente il “libretto formativo del cittadino”.



Tomasi, innanzitutto come le sembra in questo momento il mercato del lavoro in Italia?

Sul mercato nazionale abbiamo segnali di ripresa nel numero di assunzioni rispetto al 2009, ma siamo ancora lontani dai dati del 2007. Il problema è che troviamo in una situazione di debole ripresa, senza un aumento dell’occupazione. Ciò è dovuto al fatto che il numero delle assunzioni è inferiore a quello di chi continua a perdere il lavoro, soprattutto tra quelle posizioni che erano già molto deboli nei mesi scorsi a causa, per esempio, della cassa integrazione straordinaria. Questo saldo negativo sembra destinato a protrarsi almeno per un semestre.



Quali sono quindi le prospettive per il 2011?

Dovrebbe consolidarsi il trend di aumento delle assunzioni. Tuttavia non ci possiamo aspettare una ripresa lineare del mercato. Quasi sicuramente ci saranno degli scossoni, speriamo di entità limitata.

Qual è invece la situazione a livello internazionale?

Già solo restando in Europa, è abbastanza variegata. In Germania la crisi c’è ancora, ma la percentuale degli occupati rispetto ai cittadini in età lavorativa si mantiene intorno al 70%, in linea con gli obiettivi di Lisbona (in Italia siamo passati, invece, da uno scarso 60% a un 57%). Vi sono poi paesi come Francia e Inghilterra, dove la disoccupazione è più alta che in Germania, ma le previsioni di crescita del Pil fanno pensare in una ripresa dell’occupazione non brillante, ma comunque maggiore della nostra. Infine, vi sono paesi realmente in difficoltà, come Grecia e Spagna, dove il saldo occupazionale è profondamente negativo.



Dov’è il problema in Italia? Manca la crescita economica o c’è un difetto strutturale nel mercato del lavoro?

Diciamo che è una combinazione delle due cose. Le agenzie per il lavoro hanno registrato nel secondo trimestre dell’anno un aumento del 20% delle assunzioni legate ai contratti “flessibili” rispetto allo stesso periodo del 2009. Le aziende hanno quindi ripreso a utilizzare la flessibilità in maniera importante, soprattutto nel settore manifatturiero, che però è quello che ha subito più di tutti la contrazione lo scorso anno e su cui è più difficile fare previsioni di medio termine. Quindi probabilmente questa è un’occupazione di breve respiro: è difficile che tutti questi contratti a termine diventino poi a tempo indeterminato.

 

Come si può cercare di combattere il problema della disoccupazione?

 

L’Italia, se vuol tornare a essere competitiva sul mercato del lavoro, deve attrezzarsi per avere una popolazione lavorativa che si sposta da un’azienda a un’altra con una certa frequenza: i progetti di riqualificazione del personale, quindi, non devono più essere fatti straordinari che si verificano una tantum, ma vanno realizzati periodicamente. Servono poi politiche di sostegno al reddito adeguate per i disoccupati, perché la Cig in deroga è stata una buona idea, ma non è capace da sola di risolvere il problema. Il tutto all’interno di un progetto di welfare to work.

 

Che cosa significa?

 

Che ci deve essere la partecipazione attiva del lavoratore alla ricerca del nuovo impiego, con corsi di formazione e accettazione dei posti di lavori che man mano si rendono disponibili, pena la diminuzione del sostegno al reddito. In questo processo vanno coinvolte anche le Pmi, i cui lavoratori in Italia sono scarsamente tutelati: le piccole aziende da sole non sono in grado di porre rimedio a una contrazione del mercato del lavoro e spesso non accedono agli strumenti di garanzia previsti dalla legge. Dobbiamo quindi prevedere dei processi di riqualificazione e di formazione, anche continua, delle risorse. Anche perché noi siamo l’unico paese in Europa che non adotta il libretto formativo del cittadino.

 

Di che cosa si tratta?

 

Oggi abbiamo un grande problema: non sappiamo quali sono le competenze maturate dalle persone nel loro percorso lavorativo. Abbiamo una concezione della formazione puramente formale, ma c’è anche quella informale che ha una sua rilevanza. Per esempio, nelle aziende, specie piccole, ci sono dei tecnici che non hanno una formazione certificata (magari hanno solo un diploma di scuola media inferiore), ma che hanno accumulato competenze tecniche superiori a un neolaureato o un tecnico diplomato che lavora in una grande azienda. È chiaro che sarebbero più facilmente ricollocabili se si potessero rilevare queste competenze. Per questo ci vorrebbe una sorta di “carta d’identità” del lavoratore assolutamente aggiornata e leggibile per chi si occupa di ricollocare queste risorse sul mercato.

 

Una realtà che, diceva prima, esiste in altri paesi.

 

Assolutamente sì. In Francia, per esempio, i primi dati sulla formazione informale sono addirittura antecedenti alla seconda guerra mondiale. Ed essa può riguardare persino gli aspetti della vita privata. Per esempio, se una persona presta attività di volontariato in una Onlus, occupandosi della gestione di un servizio destinato a una determinata categoria di persone, vuol dire che probabilmente avrà acquisito la capacità di organizzare il lavoro altrui. Una competenza che rischia di non essere spendibile.

 

Chi deve certificare queste competenze?

Dovrebbe essere la struttura pubblica a farlo. In Finlandia, per esempio, ci sono realtà territoriali pubbliche che si occupano di certificare le competenze acquisite, sulla base di protocolli condivisi.

 

Tornando al problema della disoccupazione, la situazione dei giovani sembra particolarmente difficile. Secondo lei perché?

 

Il problema principale è il mismatching tra domanda e offerta sul mercato del lavoro. In questo momento, a fronte dei pochi posti disponibili, rispetto all’alta domanda, vi sono delle posizioni che non si riescono a coprire. Questo mismatching c’è sempre stato, ma la situazione ora appare più drammatica, perché il mercato del lavoro non cresce. Un dato di Unioncamere è eloquente: nel 2010, le imprese prevedono di non riuscire a coprire circa il 38% delle professionalità che ricercano. Abbiamo quindi un problema strutturale a livello di sistema scolastico.

 

Esattamente di che cosa si tratta?

 

Il mondo del lavoro riceve da quello della scuola professionalità che sono sempre meno in linea con le richieste. C’è, per esempio, un interesse alto per personale con lauree e diplomi tecnici, ma oggi abbiamo una scarsa qualificazione in questo senso degli studenti. Ci sono aree del paese dove i ragazzi che frequentano gli istituti tecnici sono sempre meno, i laureati in ingegneria sono una percentuale ridotta rispetto alle esigenze del mercato e continuiamo ad avere un numero elevato di laureati in discipline dove la richiesta del mercato è bassissima. Occorre quindi intervenire in maniera forte sull’orientamento. Forse un altro esempio può rendere meglio l’idea della situazione: le imprese nella provincia di Treviso collaborano molto con quelle in Germania, eppure le scuole continuano a sfornare troppi studenti che hanno studiato spagnolo e non sanno il tedesco.

 

Che opportunità ci sono oggi per i giovani alla ricerca del primo impiego?

 

Se hanno lauree o diplomi di carattere tecnico ci sono parecchie opportunità, specie se sono flessibili riguardo la disponibilità territoriale. Per esempio, la green economy di cui si parla molto, offre possibilità di lavoro, ma spesso in aree geografiche non agevoli o in condizioni ambientali non facili. Inoltre richiede percorsi di qualificazione e formazione costanti, su cui le aziende si stanno mostrando intenzionate a investire. Se poi si è pronti ad accettare opportunità a tempo determinato, ci sono anche, come detto, degli spazi nel settore manifatturiero, oltre che nell’alberghiero e nella grande distribuzione. Restano alte le possibilità nei call center e ci sono richieste a tempo indeterminato nel campo della moda. Nel settore del credito, infine, c’è domanda di addetti alla cessione del quinto degli stipendi.

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