È difficile capire cos’ha in mente Sergio Marchionne. La sua abilità nel confondere l’interlocutore è stata ormai dimostrata mille volte. E come ha giocato con gli americani di General Motors, convincendoli a sborsare quasi un miliardo di euro pur di non doversi prendere una Fiat Auto che, nel frattempo, stava diventando più profittevole della stessa Gm, così è capace di beffare i sindacati italiani e il governo. A fin di bene, naturalmente, ovvero di quel che considera bene, e resta da sperare che quanto Marchionne considera bene lo sia davvero anche per la Fiat e per l’Italia.
Marchionne sta giocando con l’Italia come il gatto col topo. Verrebbe di biasimarlo, ma poi ci si deve ricordare di quel che l’Italia “reale” del pansindacalismo ostativo e interdittorio ha rappresentato da sempre per molte delle grandi aziende industriali nazionali. L’ultima sua uscita è stata di grande apertura. Ha annunciato che per il prossimo futuro di Mirafiori, stabilimento-simbolo della Fiat in Italia, sono in arrivo due prodotti nuovi da realizzare. Sia col marchio Jeep che col marchio Alfa Romeo. Circa 250-280 mila vetture all’anno, mille al giorno. Un programma che prevede di instaurare anche a Mirafiori i ritmi di lavoro polacchi che sono al centro del piano per Pomigliano.
La cosa ha fatto scalpore, ma erroneamente: è chiaro che Marchionne vuole ottenere in tutti gli impianti italiani una produttività maggiore, comparabile – appunto – a quella dei ben più efficienti stabilimenti in Polonia. I turni dovrebbero essere tre al giorno, per 5 o 6 giorni alla settimana a seconda della domanda di mercato, o magari 4 giorni settimanali ma da dieci ore. Ovvio che su richieste del genere la Fiom dirà di no. Ovvio che si riproporrà lo scontro frontale di Pomigliano. E che ancora una volta la Fiom perderà, ma ogni volta un po’ peggio.
Con questo modo di fare, Marchionne neanche ci prova, a rendersi simpatico. Ma forse è davvero l’unica strada che può seguire, per ottenere le condizioni minime indispensabili a mantenere molta produzione in Italia. Tanto che il presidente della Fiat, John Elkann, totalmente schierato a sostegno del suo manager, ha detto che questi progetti confermano “ancora una volta, la serietà della Fiat e il suo impegno”, invocando “il senso di responsabilità” per arrivare a “un accordo in tempi brevi”, come peraltro farebbero sperare ”segnali incoraggianti anche dal sindacato”.
Del resto, dice il giovane capo della dinastia Agnelli, “c’è in ballo un investimento su Mirafiori da oltre un miliardo di euro, sia per i prodotti che sono nuovi, sia per le prospettive che questi hanno, grazie alla forza che l’alleanza con Chrysler ha. I prodotti che intendiamo produrre a Mirafiori verranno venduti in tutto il mondo, anche in Nord America, e questa è una grande opportunità”.
Su queste basi, il confronto azienda-sindacati iniziato a Torino sembra segnato. Come potranno, i sindacati rifiutarsi? La Cgil dice che occorre, prima, vedere il piano complessivo di Marchionne per “Fabbrica Italia”, ma in realtà il piano ormai è chiaro. E punta a “polonizzare” le produzioni in Italia, unica maniera per mantenerle. Un aut-aut. Il sindacato finirà con l’accettare, come ha accettato a Pomigliano.
Non resta che incrociare le dita sperando che Marchionne abbia ragione e che questo salto all’indietro nelle condizioni di lavoro in Italia non venga speso invano. Dipenderà molto anche dalla parte di compiti aziendali che le maestranze operaie non hanno alcun modo, e alcuna capacità, di condividere: la qualità della progettazione, l’incisività del marketing, tutto quello su cui la Fiat degli ultimi anni ha lasciato sempre molto a desiderare. E che nell’era Marchionne ancora non ha brillato, perché né la Nuova Cinquecento, né la Panda, né le nuove Alfa hanno regalato grandi sussulti al gradimento dei modelli torinesi sul mercato.
Meglio polacchi che disoccupati, certo. Ma diventare polacchi per poi ritrovarsi comunque fuori tra un paio d’anni sarebbe la peggiore delle beffe.