Il verbo riconvertire non va per forza a braccetto con fallire. Anzi. “Riconversione significa anche sviluppare, trovare nuove opportunità per competere sui mercati internazionali”. Così spiega Stefano Lalatta, da settembre – ovvero dall’inizio dell’attività – amministratore delegato di Gi Restart, realtà che aiuta le aziende manifatturiere a individuare e implementare soluzioni per riconvertire i siti industriali in dismissione.



Lalatta, come la riconversione degli impianti può avere una valenza positiva e non legarsi al fallimento di una realtà o alla sua delocalizzazione?

 

Riconvertire significa semplicemente indirizzare verso nuove possibilità. E questo può e anzi per fortuna avviene in momenti di positività. Ci sono poi i momenti di acquisizione o fusione. Si lavora insomma per lo sviluppo di una realtà. L’attività di Gi Restart ovviamente mette le basi, è un punto di partenza. E si rivolge al mondo produttivo industriale, ma anche a quello dei servizi, che è in evoluzione.



Dal vostro statuto leggiamo che ponete al centro del processo “la massima attenzione al mantenimento dei livelli occupazionali, i rapporti con il mercato e con il territorio”. In un’epoca di delocalizzazioni e di mercati globali, come il territorio può essere messo al centro

Nello spostamento delle produzioni e delle attività dall’Europa all’Asia, o al Sudamerica, penso non ci sia niente di patologico. Anzi, è ormai un cambiamento fisiologico e che va accettato, anche perché questo movimento c’è sempre stato anche se non in modo così accentuato. Dopodiché, è fondamentale considerare la realtà italiana. Avere responsabilità d’impresa significa non scaricare sulla comunità che vive e lavora per esempio in uno stabilimento tessile le conseguenze delle proprie decisioni aziendali. L’importante è che ci sia un corretto rapporto con chi ha costruito il bene dell’azienda, garantendo nuove opportunità.



E qui entrate in gioco voi…

Sì. Faccio un esempio: un’azienda tessile decide di spostare la produzione all’estero? In Italia può però riconvertire gli impianti e produrre fibra di carbonio. Reimpiego e continuità occupazionale: sono questi gli obiettivi di chi si occupa di riconversione. Accompagniamo quindi l’azienda fino allo start up della nuova attività, non fermandoci a un piano industriale o alla raccolta di manifestazioni d’interesse. Nelle nostre attività, con il sostegno di Gi Group, rientra quindi anche la formazione del personale, la sua eventuale riconversione intellettuale, il trovare ricollocazione a chi ha i requisiti o facilitare i prepensionamenti.

In base alla sua esperienza e alle realtà che incontra, qual è la situazione dell’imprenditoria italiana in questo periodo?

Il tessuto imprenditoriale italiano, composto in prevalenza da realtà piccole o piccolissime, sta dimostrando grandissima creatività. Incontriamo di continuo realtà che hanno deciso di cambiare rotta e puntare su settori promettenti invece di piangersi addosso. E i risultati sono interessanti.

 

Tendenza al cambiamento, quindi. Ma in quali settori principalmente?

 

Soprattutto gli imprenditori più giovani sono disposti a cambiare. Sono convinto che l’Italia abbia sempre avuto una capacità straordinaria di trasformare le idee in opportunità concrete, in prodotti e progetti. Penso alle energie rinnovabili, dall’eolico alla mobilità sostenibile, dalle biomasse alle nuove frontiere di controllo dei pannelli fotovoltaici. Insomma: crisi sì, ma c’è chi si muove e non sta certo aspettando che questo periodo drammatico finisca. Interessanti iniziative nascono anche nell’alimentare, nei nuovi stili di consumo.

 

Come risponde il mondo del credito? C’è più attenzione nei confronti delle Pmi?

 

È un argomento ancora molto delicato, la sfida lanciata dalla crisi è ancora aperta. Se il sistema creditizio o dei fondi d’investimento non darà fiducia alle nuove iniziative dell’imprenditoria italiana si creeranno molte difficoltà, è chiaro che l’aspetto finanziario non è secondario, anzi. Vedo oggi molta cautela, molta prudenza. È giusto, ovviamente. Ma bisogna ritrovare un equilibrio che si è rotto. L’appello che la politica e le associazioni rivolgono alle banche è fondamentale.

 

Quali novità intravede sull’orizzonte del dopo crisi?

 

Alcune iniziative industriali tradizionali – penso per esempio al mondo della meccanica – stanno cominciando a valutare l’opportunità di tornare in Italia. Per produzioni numerose non è possibile, ma quando il numero di pezzi non è elevato, come quando si tratta di occuparsi di design o prototipi, la tendenza è il ritorno: il controllo della qualità e il risparmio sui costi di trasporto e sui tempi hanno impatti vantaggiosi. Vedo comunque piccoli e grandi sforzi imprenditoriali che genereranno una nuova economia, completamente diversa da quella di oggi.

 

Cosa chiederebbe alla politica?

 

Vedo come positivi i dati sulla cassa integrazione. Ma se questa è una risposta emergenziale, sarebbe forse interessante cominciare a capire se una parte di queste risorse economiche possa essere indirizzata verso nuove soluzioni produttive. È importante favorire le politiche attive. L’Italia si sta ponendo nella direzione giusta, ora si tratta di percorrere questa strada fino in fondo e far sì che lo sviluppo delle politiche attive diventi la regola.