Don Cauchia andava svolazzando per le campagne su una Vespa che era un miraggio per molti di noi che passavano i mesi d’estate a Salabue, nel Monferrato astigiano sotto l’ombra del Santuario della Madonna di Crea. Le nonne e i nonni permettevano a chi non aveva i denari per le vacanze di respirare l’aria buona delle campagne e, insieme, di godere del timor di Dio. Don Cauchia accompagnava il nostro divenire uomini per quel tanto che poteva nei pochi mesi in cui ci incontrava.



Quando già lavoravo da due anni, nel 1966, e avevo compiuto in marzo 19 anni e parlavo come un galletto saputo, un giorno mi ascoltò e poi mi disse:”Scusa un po’, ma questa divisone o distinzione di cui discutete tra Ivrea e Torino, tra finanza laica e finanza cattolica, mi spinge a porti una domanda. Quella che tu chiami finanza cattolica, quanti posti di lavoro crea rispetto a ciò che fa la cosiddetta finanza laica?”.



Alle parole di quel santo sconosciuto con la tonaca rattoppata penso sempre in questi anni in cui assistiamo alla scomparsa di un’idea morale del lavoro e quindi dell’economia. Il rovello di tutti noi, di tutta la società, dovrebbe tornare a essere quello che era un tempo (sino all’avvento dell’era delle liberalizzazioni dispiegate neoclassiche che qui in Italia ha avuto il suo fenomeno cangiante con le liberalizzazioni prodiane), dovrebbe tornare a essere quello del pieno impiego.

La crisi finirà, dobbiamo ricominciare a dirlo, quando avremo la fisiologica piena occupazione in Europa. Questo deve tornare a essere il leopardiano pensiero dominante. E lo stesso si deve dire dei lavoratori, del popolo lavoratore. Dirlo con, non per, il popolo lavoratore. Qui bisogna esser chiari: i diritti si hanno se si conquistano, è vero, ma mentre li si conquista essi rimangono fonte di costruzione di bene pubblico solo se sono il frutto della fedeltà a un superiore dovere, a una obbligazione.



E l’obbligazione, per tutti, popolo e classi alte, deve essere quella dell’impegno alla creazione di un’economia solidale. Essa non estingue la distinzione degli interessi, ma nel contempo crea un destino comune anche tra chi possiede e chi non possiede, chi lavora non dirigendo e chi dirige troppo spesso non amando chi lavora soltanto; ossia nella comune convinzione che senza finalità comuni per lo sviluppo neppure i diritti si possono inverare.

Senza la relazione tra diritti e doveri i primi divengono freni alla crescita e fonte di divisione morale. Non dobbiamo aver timore delle divisioni sociali: sono inevitabili, ma rimediabili riformisticamente. Ciò che può divenire irrimediabile è la divisione morale della società. Infatti è contestabile scientificamente che la coesione sociale – termine che non vuol dire scientificamente nulla – faccia bene alla crescita economica.

 

Ma siamo certi, invece, che la solidarietà morale verso alcuni obbiettivi condivisi come comunità di destino interclassista e metastorico consente di dare dignità sia alla ricchezza e al possesso, sia alla povertà e all’esclusione, trasformando l’economia in possibilità di diffondere dignità nel superamento dell’ingiustizia e quindi della povertà e dell’esclusione.

 

Ecco la conquista: riunire i temi del lavoro ai temi dell’ingiustizia e della giustizia. Senza furori ideologici e con umile, paziente, ricerca dell’altro e delle sue motivazioni.

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