Basterebbe probabilmente l’esperienza personale di ciascuno, ma dall’osservatorio di Gi Group Academy risulta ancor più evidente che il mercato del lavoro è cambiato in modo irreversibile negli ultimi anni. Dobbiamo dircelo con chiarezza, così come dobbiamo renderci conto che questa mutazione, per certi versi svantaggiosa, può costituire una nuova occasione per ciascuno di noi. Anche perché ci “costringe” a dover capire un po’ di più che significato abbia il lavoro nella nostra vita e perché conduce chi opera nel mercato del lavoro a sforzarsi di individuare nuovi strumenti per svilupparlo, cercando di costruire un bene per tutti.



Credo davvero che questa fase della storia del nostro Paese ci costringa non solo a passare dal concetto di posto fisso a quello di employability, ma anche, sul piano personale, a guardare con più lealtà dove poniamo la nostra consistenza. E a noi, come primo gruppo italiano operante nel mercato dei servizi al lavoro, tocca il compito di contribuire a individuare strade percorribili per ciascuno e per l’intero mercato.



Ognuno al suo lavoro

Un rapporto del 2010, elaborato dall’Ufficio Internazionale del Lavoro, indica che nel mondo 212 milioni di persone erano senza lavoro nel 2009 e che tra i disoccupati molti appartengono ai ceti sociali più deboli (migranti, donne, lavoratori non specializzati, giovani in cerca di prima occupazione), che corrono costantemente rischio di scivolare sotto la soglia di povertà.

Di fronte a una tale imponenza del fenomeno, che prospettiva praticabile per il rilancio dello sviluppo può essere ragionevolmente adottata se non quella di ripartire dall’educazione della persona come portatrice di bisogno, ma soprattutto come risorsa strategica per lo sviluppo stesso? Dobbiamo contribuire a mobilitare l’energia e il dinamismo del lavoro umano, dobbiamo cioè affrontare seriamente la questione cruciale per ognuno: qual è il significato del lavoro. Solo così si può provare a costruire “un’uscita sostenibile dall’insicurezza e dalla povertà”, come sostiene il patriarca di Venezia Angelo Scola in “Buone ragioni per la vita in Comune”.



Per mobilitare positivamente la persona bisogna, ad esempio, puntare sulle sue effettive capacità e talenti, su una formazione continua che sia però autenticamente correlata ai possibili sbocchi, su infrastrutture capaci di far incontrare domanda e offerta, come le agenzie per il lavoro cominciano a essere, ma soprattutto sulla responsabilità e sul desiderio della persona stessa. Per questo certe politiche attive che forniscono una dote da spendere per la propria crescita professionale, e non si limitano semplicemente all’assistenza, sono certamente da considerare positive. E le forme, gli strumenti, devono emergere innanzitutto da chi, nella società civile, fa esperienza di rispondere concretamente ai bisogni: avere più società e meno stato, ancora una volta, aiuta.

È uno sguardo realista sull’uomo e sul suo desiderio costitutivo, una condivisione sin nel dettaglio tra persone che porta a quelle relazioni buone che rendono praticabili i percorsi di sviluppo, facendo leva sul desiderio del singolo soggetto attivo. Così diviene un po’ più possibile che ognuno giunga ad avere il suo lavoro. Come scrive significativamente T.S. Eliott, “in luoghi abbandonati/ Noi costruiremo con mattoni nuovi/ Vi sono mani e macchine/ E argilla per nuovi mattoni/ E calce per nuova calcina/ Dove i mattoni sono caduti/ Costruiremo con pietra nuova/ Dove le travi sono marcite/ Costruiremo con nuovo legname/ Dove parole non sono pronunciate/ Costruiremo con nuovo linguaggio/ C’è un lavoro comune/ Una Chiesa per tutti/ E un impiego per ciascuno/ Ognuno al suo lavoro”.

 

L’educazione al lavoro

Gi Group ha deciso quest’anno di investire su una Academy che ha la mission di contribuire a sviluppare la cultura e il mercato del lavoro in Italia, perché abbiamo la consapevolezza di avere una responsabilità nei confronti di numerosissimi portatori di interesse e perché sappiamo che “c’è cultura nel fare”. Sappiamo che non solo il modo con cui far crescere il nostro gruppo, ma anche quello di contribuire allo sviluppo del mercato del lavoro e di creare opportunità per uomini e imprese non è demandabile alle istituzioni, che pure in certa parte hanno dato il loro contribuito, sia con un sostegno al reddito che con politiche attive e strumenti legislativi.

 

Siamo una compagine privata e dunque attenta al conto economico, ma sappiamo anche che ciò che facciamo è di pubblica utilità, può essere utile per ciascuno, e cercare di farlo al meglio ci sembra il miglior contributo che possiamo dare a noi stessi e a tutti: a patto che ci si aiuti a essere realisti. Sviluppare il mercato del lavoro, contribuendo a definire e comunicare nuovi scenari, strategie e strumenti di crescita, è indispensabile in un Paese come il nostro, ma la sfida che attende ciascuno di noi è soprattutto quella di percepirsi in cammino e di puntare sull’educazione.

 

Dico questo perché mi sembra ci sia molta confusione quando si pensa a cosa sia il lavoro nella vita di ciascuno: incontro talvolta molta esaltazione e spesso, purtroppo, molta rassegnazione o anche forte demotivazione, dettate non solo dalla situazione di crisi che stiamo attraversando, ma da una fatica personale a mettere le cose al proprio posto, nella giusta proporzione. E questo probabilmente accade perché siamo portati a pensare alla nostra realizzazione in termini irrealistici, parziali e un po’ idolatrici: ci concepiamo al perenne e affannoso inseguimento di una riuscita autonoma, da conseguire possibilmente senza fatica, e che dovrà avvenire sempre in un momento successivo. E così saltiamo l’urgenza dell’istante, della nostra reale situazione: non ci mettiamo nelle condizioni di desiderare un compimento autentico, che coinvolga tutto il nostro io.

 

Può sembrare strano fare affermazioni di questo tipo mentre c’è un’emergenza “posto di lavoro”, ma senza aver chiaro il significato di ciò che facciamo, del nostro lavoro di uomini, siamo condannati a non essere mai protagonisti della nostra vita. C’è un problema di educazione, una necessità di approfondimento del senso del lavoro che coinvolge tanto i neolaureati che i top managers, tanto chi è in una fase ascendente della propria carriera professionale che chi si trova, spesso senza colpa, a inseguire un minimo di stabilità.

La vera alienazione

C’è una trascuratezza all’origine di quell’impressione del lavoro come condanna, che assale l’uomo che pensa di potere riuscire a compiersi con quello che fa. Come mi hanno insegnato quarant’anni di vita e alcuni buoni maestri (e lo dico come un dono ricevuto e non – come potrebbe essere per qualcuno – come una sconfitta), l’attesa del cuore dell’uomo è incommensurabile rispetto alle sue realizzazioni. Ma questa è la grandezza unica dell’uomo.

 

Oggi, invece, può sembrare più appassionato all’uomo chi chiede che ci sia per tutti un lavoro, e che questo non sia alienante. Il tema dell’alienazione va però compreso bene. Già prima di Marx, e poi con le ideologie derivate dal suo pensiero, si è giunti ad affermare che l’uomo viene alienato da fattori esterni e che non può liberarsene se non mutandoli (con le relative conseguenze anche sociali). A me hanno insegnato, invece, che l’alienazione si crea dentro la persona, se si riduce il suo desiderio.

 

Non esistono fattori esterni che impediscano di possedere un significato per ciò che si fa e che può dunque essere abbracciato liberamente anche in condizioni difficili: ci può essere una ragione anche nel permanere in catena di montaggio o nel dover stare a logiche aziendali che non si condividono o che esercitano pressioni difficilmente sostenibili sui capi come sui collaboratori. Ad esempio, per mantenere la propria famiglia, per costruire qualcosa per sé e per tutti, per crescere anche nella competenza e nella responsabilità. In qualunque condizione ci si trovi, si lavora per trasformare la realtà, per renderla più vicina al desiderio che ci costituisce nel profondo.

 

Il professor Vittadini, in un recente convegno ospitato da Gi Group Academy, ha detto: “Mi sembra che un uomo vive un’alienazione nella misura in cui riduce il suo desiderio. E questo accade di solito in due modi. Il primo quando si riduce il valore del lavoro alla sola carriera, cioè all’ottenimento di una posizione di prestigio e potere, non come strumento per una più efficace trasformazione della realtà, ma come scopo in sé. L’altra modalità di alienazione è confondere una sacrosanta esigenza di stabilità, con un’idea di occupazione come diritto da pretendere a prescindere da tutto”.

 

Creare più occupazione

Il tema vero che pone chi afferma che ci dev’essere un lavoro stabile per tutti, una possibilità di far fronte a ciò che nella vita si desidera costruire è certamente quello importantissimo del diritto al lavoro. Si tratta di un diritto legato alla civiltà intera, perché senza lavoro l’uomo non si sviluppa, non ha la possibilità di scoprirsi in azione, di contribuire alla creazione: rischia di non esercitare sino in fondo la propria dinamica di uomo. Per questo vanno cercate sempre nuove forme per creare occupazione, nella consapevolezza che non c’è occupazione senza sviluppo. E che non c’è giustizia sociale senza sviluppo.

 

Credo sia necessario provare a creare ricchezza, possibilmente senza squilibri e, con realismo, in un’ottica in cui si passi dall’idea della necessità di un posto continuativo nel tempo nella stessa azienda a quella di un percorso continuativo nel lavoro. Dal nostro osservatorio sulle professioni risulta anche chiaro che compiendo un percorso si ha la possibilità di migliorare, di accrescere la propria capacità, anche quella di creare lavoro e di rispondere all’esigenza di occupazione. Occorre allora una politica di sviluppo della formazione permanente per il capitale umano.

Del resto il precariato non è l’obiettivo di nessuno. Ma non bisogna dimenticare che i dati dimostrano che quasi l’80% delle risorse che vengono impiegate con contratti a tempo determinato nel giro di circa tre anni vengono assunte a tempo indeterminato. Occorre anche ricordarsi che il bisogno, soprattutto di una piccola e media impresa, non è di avere personale che viene e va, dal momento che il suo valore aggiunto, nel lungo periodo, è connesso proprio alla sua stabilità. D’altra parte, lottare contro il precariato non significa sostenere una politica egualitaria dove salari, stipendi e qualifiche non sono legate a capacità personali e produttività, come purtroppo succede, per esempio, nel mondo della scuola.

 

Potrebbe sembrare necessario quindi un “compromesso” tra stabilità e precarietà, anche se questo termine sembra sempre indicare qualcosa di negativo nella mentalità odierna. Ma il difficile compito della politica e di chi agisce per costruire è quello di accettare con lealtà le misure dell’uomo, le circostanze in cui si opera e, dentro queste misure, compiere l’opera cui si è chiamati, trovando la migliore e più percorribile soluzione possibile. Del resto l’allora cardinal Ratzinger in “Chiesa, ecumenismo e politica” affermava in modo illuminante: “Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

 

Va allora forse piuttosto detto che le iniziative degli operatori e le politiche attive del mercato del lavoro devono essere flessibili, intelligenti, creative, continuamente modificabili a seconda del tipo di esigenze che si incontrano: poste quasi in un compromesso personale con la realtà.

 

Il problema dei giovani

Anche per i giovani, per i quali sembra esserci una vera emergenza occupazione, ritengo che il tema da affrontare sia quello dell’educazione. In uno dei recenti articoli de “L’approfondimento di Gi Group Academy”, che pubblichiamo da alcuni mesi su uno dei maggiori quotidiani nazionali, il professor Giuseppe Bertagna dell’Università di Bergamo, attento osservatore del fenomeno, descriveva come a volte la scuola faccia male, almeno a chi la subisce.

Il 6% dei giovani in Italia a 16 anni, infatti, è già fuori da qualsiasi attività formativa scolastica o di istruzione e formazione professionale, mentre il 26,5% si diploma con un ritardo da uno a sei anni. Quasi il 70% dei diplomati, poi, si iscrive all’università, ma il 46% di loro finisce fuori corso. Uno studente universitario su sei è inoltre inattivo, non fa cioè nemmeno un esame all’anno, e uno su cinque non si laureerà mai. In media i nostri giovani acquisiscono la laurea triennale a 25 anni e la quinquennale a 27, cioè circa tre anni dopo i coetanei europei o cinesi. E solo il 47% dei laureati risulta occupato a un anno dalla laurea: in Germania il dato è al 77,15% e in Finlandia e Francia al 69%. Infine, solo per un terzo di loro l’occupazione è attinente al percorso di studi, mentre per un altro terzo serve la laurea, ma non il percorso scelto, e per l’ultimo terzo non serve proprio: il che spiega in parte perché dal 2000 al 2009 il tasso di attività per i laureati dai 25 ai 29 anni sia sceso dall’81% al 68%, mentre la media Ue è passata dall’89,6% all’89,1%.

 

Buona parte dei giovani italiani ha poi interiorizzato, grazie al percorso scolastico e alla concezione familiare e sociale dominante, il pregiudizio negativo sul valore e sulle potenzialità anche culturali e formative del lavoro, soprattutto se manuale. Abbiamo fatto un salto indietro di 2000 anni: siamo tornati ai tempi dei pagani, che concepivano il lavoro dignitoso come qualcosa di esclusivamente intellettuale, disprezzando il lavoro fisico, che nel mondo greco era considerato l’impegno dei servi. Non era così nel monachesimo, dove il lavoro manuale era parte integrante della Regola.

 

L’esito di questo neopaganesimo si vede forse anche in un dato che in Academy abbiamo potuto osservare: se si estende la fascia di età giovanile fino ai 29 anni, la generazione dei “Neet” (not in education, employment or training) è pari al 21,2%. Una percentuale che non ha eguali nei 30 Paesi dell’Ocse e che è quasi il doppio della media dei Paesi UE. Appare evidente che in Italia dobbiamo con grande urgenza concentrarci nell’individuare il miglior modo di costituire validi trait d’union tra scuola e lavoro e che qualche problema con l’educazione dei giovani, e non solo, lo abbiamo davvero.

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