Alla fine a Mirafiori l’accordo si è trovato. Fiat e i sindacati, tranne la Fiom, prima di Natale hanno siglato un’intesa che farà certamente discutere. Non solo perché esclude dalle future rappresentanze sindacali i metalmeccanici della Cgil, ma anche perché il contratto di lavoro sarà “esterno” a quello collettivo nazionale di categoria. Una rivoluzione nelle relazioni industriali davvero indispensabile per continuare a produrre auto in Italia? Secondo Matteo Colaninno, deputato del Pd, imprenditore ed ex vicepresidente di Confindustria, la sfida di Marchionne non può essere certamente lasciata cadere nel vuoto, ma il suo modo di agire, attraverso una serie di “strappi”, può essere rischioso.



 

Cosa pensa della vicenda Mirafiori? Su Fabbrica Italia, Marchionne sta “tirando troppo la corda” nei confronti dei sindacati da una parte e di Confindustria dall’altra?

 

Marchionne ha posto all’Italia una sfida sul piano della competitività che non può essere lasciata cadere nel vuoto. Fiat vincola la realizzazione dei nuovi investimenti in Italia a condizioni profondamente diverse da quelle offerte dall’attuale contesto. È in quest’ottica che devono essere collocate le vicende di Pomigliano prima e di Mirafiori oggi: simboli di un profondo ridisegno delle relazioni industriali di questo Paese che, se per certi versi auspicabile, si sta certamente compiendo attraverso una serie di strappi che giudico assai rischiosi e, soprattutto, non discriminanti per la sfida di Fiat tra globalizzazione e crisi economica.



Marchionne ha colto effettivamente il problema della produttività del sistema-Paese? Gli altri imprenditori dovrebbero seguire il suo esempio?

 

Non vi è dubbio che quello della produttività rappresenti un punto di debolezza del sistema italiano. Di questo Marchionne è pienamente consapevole e, da guida manageriale di un gruppo automobilistico globale, è chiamato a prendere decisioni e ad allocare risorse comparando le varie opzioni possibili. Secondo la sua analisi, l’unica chance per recuperare produttività oggi in Italia sta nell’uscita dalla cornice del contratto nazionale. Ritengo questa una forzatura e dubito che questo caso possa diventare un paradigma sostenibile per le altre imprese, perlomeno nel medio periodo. Comunque, le idee e le scelte di Marchionne fanno discutere e personalmente attribuisco a questo dibattito un valore positivo.



In Italia c’è comunque un’emergenza: un giovane su cinque non studia e non ha un lavoro. Cosa si può fare per aiutare i giovani? E cosa possono invece fare loro direttamente?

Si tratta di una questione molto complessa e delicata, che le manifestazioni studentesche di queste settimane hanno giustamente – e finalmente – portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Credo che per aiutare i giovani debbano maturare due condizioni. La prima consiste nel tornare a crescere economicamente in modo consistente e duraturo, perché maggiore crescita vuol dire anche maggiori opportunità per tutti. La seconda condizione sta in una rivoluzione culturale: occorre credere di più nelle giovani generazioni, offrendo loro la possibilità di rischiare e di imparare ad assumersi le responsabilità. Dal loro punto di vista, i giovani dovrebbero essere più mobili e più disponibili a mettere in circolo quelle energie decisive a fare scoccare la scintilla del cambiamento in un Paese come il nostro, troppo vecchio e rigido.

 

Occorrono cambiamenti nella scuola e nell’università per avere competenze più spendibili e un migliore capitale umano?

 

Le varie riforme che hanno interessato la scuola e l’università nel corso di questi ultimi anni non sembrano aver prodotto i necessari cambiamenti, stando a quanto suggeriscono le classifiche internazionali. Il Partito democratico si è fortemente opposto in parlamento alla riforma universitaria portata avanti in questi mesi dal governo. Sono convinto che si possa ottenere un capitale umano di elevato livello solo puntando sulla qualità dell’insegnamento, sul rilancio delle infrastrutture fisiche (come gli stessi edifici) e tecnologiche, sulle possibilità di scambio con altri Paesi, sulla volontà di premiare effettivamente i più meritevoli. Ciò è possibile investendo ingenti risorse, non tagliandole, perché solo in questo modo possiamo creare una prospettiva costruttiva.

 

Com’è possibile che però ci siano posti di lavoro (spesso nemmeno “squalificanti” o di basso livello) vacanti in un periodo di crisi?

 

Non è affatto sorprendente constatare l’esistenza di posti vacanti in un periodo di crisi come questo. Al contrario, è la dimostrazione della distanza – spesso troppo ampia – esistente tra il mondo delle opportunità reali e le “fascinazioni” dei percorsi di studio. Se è legittimo e comprensibile che un aspirante avvocato non sia interessato a fare il tornitore, non possiamo tuttavia continuare a ignorare le distorsioni di un sistema che difetta di operai specializzati e abbonda invece di architetti, psicologi e comunicatori. Evidentemente, i tentativi di ridurre questo gap tra mercato e mondo della formazione – anche rispetto alle discipline tecniche – non sono stati finora sufficienti.

 

Senza imprese sarà comunque difficile creare posti di lavoro: cosa occorre alle aziende italiane per superare la crisi e crescere?

Le imprese italiane – lo vado sostenendo ormai da due anni – riusciranno a superare questa crisi puntando su tre leve strategiche. Una maggiore capitalizzazione (per riequilibrare una struttura finanziaria troppo sbilanciata sul debito), una più forte proiezione sui mercati internazionali (per cercare nuovi segmenti di clientela) e una continua tensione all’innovazione (per presidiare le filiere a più alto valore aggiunto). Senza questo, temo che la vuota retorica sulla piccola impresa che abbiamo ascoltato finora non salverà né le imprese, soprattutto le piccole, né l’Italia.

 

In questi ultimi mesi il sistema economico e di relazioni industriali della Germania sembra essere diventato un punto di riferimento per guarire i mali dell’Italia. Cosa ne pensa?

 

I tedeschi rappresentano uno straordinario esempio di successo basato, oltre che su un sistema imprenditoriale e finanziario armonico, su un forte pragmatismo e su una ferrea determinazione ad affrontare le difficoltà con uno spirito unitario. Se noi italiani, a partire dalla politica, potessimo ispirarci allo spirito imprenditoriale e all’orgoglio nazionale tedesco, avremmo sicuramente qualche carta in più da giocare al tavolo della ripresa economica e del rilancio del nostro Paese.

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