Non passa giorno che il «bollettino» della crisi non dica qualcosa di nuovo, in peggio o- più raramente – in meglio. Tra gli ultimi dati in circolazione, se si fa eccezione da quelli positivi delle entrate fiscali, ci sono quelli del Fondo monetario. Il Fmi ha rivisto al rialzo le nostre previsioni di crescita: +1 per cento nel 2010 e +1,3 per cento nel 2011. La disoccupazione invece e in aumento: +0,2 per cento tra novembre e dicembre. I più lungimiranti, augurandosi di essere smentiti, lo avevano detto: nel 2010 subiremo le conseguenze gravi della disoccupazione. La tenuta sociale del paese è a rischio? Ilsussidiario.net ne ha parlato con il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi.
Ministro, gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione sono chiari: 8,5 per cento in dicembre contro l’8,3 di novembre. A soffrire di più sono i giovani: 26,2 per cento di disoccupati, 3 punti in più rispetto a dicembre 2008.
Avevamo già messo nel conto un peggioramento dell’andamento della disoccupazione nel corso del 2010. Per questo abbiamo messo a disposizione risorse per ammortizzatori sociali ancor maggiori rispetto a quelle spese nel corso del 2009. Non solo. Abbiamo aperto un tavolo con Regioni e parti sociali per fare in modo che agli ammortizzatori sociali e alle forme di integrazione del reddito si colleghi anche un investimento adeguato in competenze. Come ripeto da tempo, senza formazione non si va da nessuna parte. In ogni caso i dati europei sono peggiori dei nostri.
Nella sua prolusione del 25 gennaio mons. Bagnasco ha parlato della crisi e puntato l’attenzione sulla coesione sociale. È venuta meno – ha detto – quella che viene chiamata «cura tra le generazioni». Che cosa può favorirla secondo lei?
In primo luogo credo che si debba rivalutare il ruolo della famiglia come luogo naturale dell’incontro tra le generazioni. Della famiglia come cellula indispensabile e vitale – soprattutto dal punto di vista demografico, e poi anche da quello della trasmissione delle esperienze – dell’accompagnamento alle scelte educative dei giovani, che troppo spesso sono abbandonati a se stessi e privi di un orientamento serio. Tutto questo si ripercuote sulle scelte di vita, personali e professionali. Non c’è niente di peggio che trovarsi nella condizione di non compiere scelte educative fondamentali per l’interferenza di convenzioni sociali e di valori sbagliati.
Chi minaccia la famiglia oggi e perché?
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La minaccia è rappresentata da tutto ciò che potremmo chiamare nichilismo o relativismo. Come difenderci? Sarebbe sbagliato giocare sulla difensiva e riproporre schemi del passato. Dobbiamo partire da una verità che esiste e può essere proposta anche in termini laici. Penso alla nostra Carta costituzionale, redatta con il contributo determinante dei grandi partiti popolari, che hanno onestamente voluto riconoscere i valori del nostro popolo, nei quali c’è la tradizione cristiana. Non si può intraprendere quest’opera di costruzione e di proposta prescindendo dalla fede e dalla Chiesa.
In Italia un aiuto rilevante alle famiglie verrebbe dal quoziente familiare ma per ora pare che non se ne parli per motivi evidenti di bilancio. È così?
Il quoziente familiare e comunque una fiscalità favorevole alla famiglia è nell’agenda di governo. Ma occorre sostenere la famiglia in modo da conciliare scelte di lavoro e responsabilità familiari, senza penalizzare la composizione del nucleo familiare. È evidente che una riforma così ambiziosa potrà essere costruita da un lato attraverso un percorso di ricerca del massimo consenso, e dall’altro tenendo in considerazione l’andamento dell’economia.
Cosa vuol dire, come lei ha detto in un’intervista al Corriere il 31 dicembre scorso, che le riforme di oggi devono rifarsi all’eredità di Craxi?
Craxi fece una politica che risvegliò la vitalità italiana. Ma ebbe anche grandi intuizioni di vario genere. Le sue sono riforme in parte ancora non realizzate, come quelle di carattere istituzionale, ma c’è anche un metodo che ci ha lasciato e che rende attuale la sua lezione politica.
Quale?
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Dal modo con cui affrontò il sequestro Moro, affermando che non esiste ragion di stato che preveda il sacrificio di una vita umana, fino alla definizione di un moderno rapporto tra lo stato e la Chiesa cattolica. O ancora la convinzione che si dovesse affermare il primato della politica – espressione della volontà popolare – attraverso riforme tali da rendere le istituzioni realmente governanti nella prevalenza dell’interesse generale. Sono lezioni ancora attuali.
Nel suo ultimo libro, Dialogo a Nordest, lei ha detto che un futuro ambizioso «potrà essere costruito solo dai popoli e non dalle élites ciniche e indifferenti». Quali sono queste oligarchie e che cosa si deve fare per contrastarle?
Sono quegli interessi particolari espressi da tecnocrazie e gruppi di interesse che sono legittimi quando rappresentano in modo trasparente una ragione di parte, ma non lo sono quando hanno la pretesa di imporla come interesse generale, di sostituirsi o di condizionare la volontà popolare. Gruppi contro i quali è oggi indispensabile riaffermare il primato della politica e con esso della volontà popolare.
Il Nordest è sempre stato difficile da capire: terra del cattolicesimo che guarda a sinistra, della vocazione imprenditoriale, delle spinte autonomiste. Per anni è stato un modello. Lo è ancora?
Il Nordest è innanzitutto collocato in una posizione che lo rende piastra logistica naturale dell’intera Unione europea, nelle due direzioni del possibile sviluppo futuro dell’Europa, quella orientale e quella mediterranea. Un popolo che viene dall’antica tradizioni di una straordinaria esperienza politica come quella della Serenissima, che ha rinnovato nel tempo la sua attitudine alle relazioni globali. Ha profonde radici cristiane che lo aiutano all’incontro perché l’incontro è sempre figlio di una robusta identità. Quindi è una terra che può dare molto all’intero paese e all’intera Europa.
Si discute molto della riforma federale dello stato. Teme uno scollamento delle zone più produttive del nord quando si farà il federalismo?
No. Il federalismo di questo governo saprà inserire la responsabilità nel decentramento dei poteri e diventerà un nuovo strumento di coesione nazionale.