Con la richiesta di allineare a 65 anni entro il 2012 l’età pensionabile di vecchiaia delle dipendenti delle pubbliche amministrazioni la Commissione europea è entrata a gamba tesa nel dibattito italiano nelle stesse ore in cui il Governo era impegnato a spiegare agli italiani i provvedimenti, in materia previdenziale, contenuti nella manovra.



Non essendo stato possibile trovare un compromesso realistico, intorno a una data intermedia tra il 2018 (la scadenza indicata nella legge in vigore) e il 2012, il Governo dovrà adeguarsi. Come era prevedibile, la vicenda ha riaperto il solito “tormentone” che si presenta puntualmente ogni volta che viene in discussione l’età pensionabile in un Paese come il nostro in cui la massima aspirazione della gente sembra essere quella di andare in pensione il più presto possibile.



In tale contesto di “dolori” – in cui l’anticipazione dell’andata a regime dei 65 anni per l’età di vecchiaia delle donne appartenenti al pubblico impiego si aggiungeva al nuovo impianto delle “finestre” – il quotidiano La Repubblica ha cercato di gettare un ulteriore grido di allarme, dimostrando che i giovani dovranno andare in pensione a 70 anni suonati.

In effetti è quanto si ricava da una norma introdotta lo scorso anno nell’ordinamento, grazie alla quale, a partire dal 2015, in forza dell’aggancio automatico del requisito anagrafico alla dinamica dell’attesa di vita, l’età pensionabile crescerà di tre-quattro mesi all’anno, arrivando così a 70 anni intorno al 2050.



La cosa in sé non fa scandalo; anzi, viste le prospettive dell’invecchiamento e dell’attesa di vita, si potrebbe pensare che, ancora una volta, il Belpaese arriverà in ritardo. Ma la questione pone un problema: quello di un riordino dell’età del pensionamento rispetto al clima da Far West ora vigente.

È il caso di rimettere in campo l’idea di un pensionamento flessibile almeno nel sistema contributivo, compreso in un range che va, inizialmente, da 62 a 67 anni per tutte le tipologie di pensione, ragguagliato ai coefficienti di trasformazione e ai meccanismi di aggancio automatico all’aspettativa di vita.

In questo modo si terrebbero insieme differenti esigenze: quella di prestare attenzione alle propensioni personali dei lavoratori e delle lavoratrici e quella di adeguarsi all’evoluzione dei parametri di fondo di ogni sistema pensionistico.

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Tornando in conclusione agli aspetti previdenziali della manovra, sarebbe opportuno pensare ad alcune misure correttive delle regole introdotte, allo scopo di renderle più eque, senza mettere in discussione i saldi. La nuova architettura delle “finestre” è più severa, rispetto alla situazione previgente, per coloro che scelgono di andare in pensione di vecchiaia e di anzianità con 40 anni di versamenti, rispetto a quanti si avvalgono dei normali requisiti del trattamento d’anzianità (età minima+quote).

 

A fronte di un prolungamento di pochi mesi per i secondi, i primi ne subiscono uno più lungo, tra il doppio e il triplo. Sarebbe poi utile prevedere qualche altro caso di deroga, come accaduto in altre circostanze in passato. Potrebbero mantenere le precedenti “finestre” anche le persone in regime di prosecuzione volontaria prima dell’entrata in vigore del decreto, per le quali lo spostamento in avanti della data dell’esercizio del diritto comporta un periodo più lungo d’attesa dell’erogazione della pensione, in assenza di un lavoro retribuito.

 

Resta, poi, da chiedersi fino a quando il tema dell’elevazione dell’età pensionabile continuerà a essere affrontato in maniera indiretta, agendo sulle “finestre” senza toccare la “sacralità” dei requisiti. Lo hanno fatto tutti i Governi, a prova che siamo un Paese di farisei. Di destra e di sinistra.