Agosto, si sa, favorisce le letture. Anche le più eccentriche rispetto al tran tran quotidiano. E così capita di imbattersi in fenomeni nuovi, anzi arcinoti. La disoccupazione giovanile, innanzitutto. È un problema noto, per carità. Ma fa comunque impressione scoprire, dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro alla mano, che a fine 2010 l’esercito dei senza lavoro sotto i 25 anni nel mondo “industrializzato” ha raggiunto la cifra di 81,2 milioni, ovvero il 13% del totale.



Nel solo anno in corso, le nuove reclute sono state 7,8 milioni. Facile prevedere, di fronte a questi numeri, tensioni sociali in crescita nell’immediato e a medio termine. Non stupisce, in particolare, il naufragio delle utopie degli anni d’oro, quelle all’origine della nascita di Villeneuve, periferia di Grenoble. È stata, all’inizio degli anni Settanta, il prototipo della città nuova, laboratorio della sinistra municipale.



Qui, su iniziativa del sindaco socialista Hubert Dubedout, per cinque anni si sono impegnati medici, avvocati, sociologi, fior di architetti e il meglio della pubblica amministrazione locale, oltre a intellettuali del calibro di Jean Luc Godard. L’obiettivo? La rivoluzione urbana, ovvero la creazione di uno spazio in cui potessero convivere ricchi e poveri, bianchi e neri e così via.

L’operazione, per qualche anno, ha funzionato. Poi, quasi all’improvviso, Villeneuve si è trasformata nel teatro della guerriglia urbana: l’uccisione di un rapinatore (nero e giovane bien entendu) è stata la miccia che ha fatto saltare la Santabarbara. E così Villeneuve, da terra dell’utopia è diventato lo spot dell’inferno. Da qui, infatti, Nicolas Sarkozy ha lanciato la sua proposta choc: levare la nazionalità francese ai minori che si sono macchiati di crimini di sangue contro la polizia.



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Da terra dell’utopia a palcoscenico dell’odio, insomma. Nel giro di pochi anni. Com’è stato possibile? Spiega il filosofo Gilles Lipovetsky, che a Villeneuve ha vissuto 13 anni, sulle colonne di Le Nouvel Observateur: “Non è la sconfitta dell’utopia ma della socialità: quando la famiglia, la scuola e l’impresa non svolgono più un ruolo di integratori, l’esclusione diventa inevitabile. Così l’ansia di consumare sempre di più è diventata la norma. I giovani, schiacciati dalla disoccupazione dominante, vogliono comunque dare una prova della loro esistenza. E di fronte a questo vuoto, non serviranno a nulla le più belle case o i più bei quartieri del mondo. Tutto verrà schiacciato da questa sensazione di inutilità”.

 

L’esercito dei disperati, insomma, s’ingrossa: in Francia, in Italia. Per non parlare degli Usa dove, c’informa uno studio bipartisan, 8 neonati su 100 sono figli di emigranti clandestini, per tre quarti di origine ispanica. Anche negli Usa, come in Francia (per non parlare dell’Italia) l’insofferenza verso l’emarginazione degli immigrati, ricaduta inevitabile della globalizzazione non gestita, cresce assieme alle proposte più drastiche. Anche il senatore Lindsay Graham, repubblicano, agita l’arma del ritiro della nazionalità. Anzi, parla di rivedere la Costituzione per negare il diritto automatico alla cittadinanza per i nati entro il suolo americano.

 

Forse, possono obiettare gli ottimisti, la ripresa, quando verrà e se verrà, potrà cancellare le manifestazioni più estreme di chiusura. Ma dalla Germania, in pieno boom grazie all’export, giunge la doccia fredda. Dietro il recupero della macchina industriale tedesca, cioè dell’economia ufficiale, c’è la fioritura di un sottobosco di sfruttamento che sfugge alle statistiche.

 

Un’indagine dell’università di Friburgo sottopone numeri impressionanti: il 20% dei lavoratori percepisce un salario inferiore a 10 euro l’ora, cifra che s’abbassa a 4 euro l’ora nell’ex Germania Est. Il numero dei lavoratori poveri, che campano sotto la soglia di povertà, è cresciuto di due milioni di unità negli ultimi dieci anni. Intanto, c’informa il professor Fridrich Schmitz dell’università di Linz, si è notevolmente estesa l’area dell’economia ombra, quella che non paga le tasse, per intenderci.

 

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È un fenomeno ben noto in Italia ma che, con l’avanzare della crisi, si è notevolmente diffuso anche in Paesi insospettabili. Nella classifica del nero, infatti, avanzano dietro l’Italia (preceduta da Grecia, Turchia, Paesi Baltici e Bulgaria) la Spagna ma anche l’insospettabile Svezia, la Germania, il Regno Unito e lo stesso Giappone.

 

Sotto i cieli della crisi, insomma, la moneta cattiva scaccia quella buona. È una legge civile, oltre che economica, da cui non si esce senza un grosso sforzo collettivo che va al di là delle terapie di politica monetaria, del trend dei mercati finanziari o degli investimenti purchessia, per dare risposte a breve ai problemi con denaro a tasso zero.

 

La sensazione, in ultima analisi, è che la difficoltà a trovare una terapia per la crisi che il mondo attraversa non sia tanto legata al fatto che le risposte fin qui fornite siano sbagliate. Ma, semmai, è che gli economisti (e non solo loro) si siano posti domande sbagliate, con il risultato di tagliare gli investimenti (vedi l’istruzione, ad esempio) dove servono di più.

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