Nel 1995 pubblicai con Tremonti e Luttwak “Il fantasma della povertà”. Con questo titolo il libro voleva avvertire che, senza una grande politica di cambiamenti interni e di governo del globo, la classe media di America ed Europa di sarebbe impoverita a causa dell’impatto della globalizzazione.
Questi cambiamenti non sono avvenuti e in ambedue i continenti i poveri diventano sempre più poveri, e di più, e i ricchi ricchissimi, di meno. Non per la crisi corrente, ma per un cortocircuito nel ciclo globale del capitale che riduce la ricchezza nei Paesi ricchi. Il capirlo aiuterà a inquadrare meglio i tanti casi in cronaca di sofferenza del lavoro e dei salari e a vedere la soluzione.
La teoria del libero mercato internazionale (“vantaggio competitivo”) prevede che la connessione commerciale tra nazioni ricche e povere renda ricche le seconde senza ridurre la ricchezza delle prime, anzi. Per esempio, in Serbia costa meno produrre un’auto ed è ovvio che la Fiat, esposta alla concorrenza globale, sposti lì le fabbriche. Ciò in teoria non sarebbe un problema perché i serbi, diventando più ricchi, possono comprare prodotti di lusso o ad alta tecnologia fatti in Italia.
I lavoratori italiani espulsi dal mercato dell’auto si spostano nei nuovi settori e, alla fine, tutti, serbi e italiani, diventano più ricchi. Ma tale esito positivo ha bisogno di alcune condizioni: (a) una elevata mobilità geografica e intellettuale nei lavoratori dei Paesi ricchi; (b) la capacità dei Paesi poveri di diffondere socialmente la ricchezza, aumentando così la domanda di beni importati; (c) una buona stabilità monetaria, cioè un limite alle svalutazioni competitive; (d) un’ampia apertura dei mercati nazionali al commercio internazionale, cioè pochi protezionismi; (e) una forte capacità dei Paesi ricchi di rispondere alla concorrenza per costo attraverso incrementi di produttività.
Il problema che dobbiamo affrontare è che tali condizioni non si stanno verificando. La Cina diffonde troppo lentamente la ricchezza creata con l’export nel suo sistema economico, concentrandola in fondi sovrani utilizzati per comprare posizioni di potere nel mondo, e ciò riduce i volumi di importazioni.
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Il fenomeno è attutito dalla domanda cinese di grandi sistemi prodotti in Occidente, ma c’è. Complicato da una svalutazione competitiva dello yuan che aumenta in modo sleale la concorrenzialità delle merci esportate dalla Cina e il loro impatto. Sul lato dei Paesi ricchi si osserva un’insufficiente velocità nel sostituire le produzioni non più competitive con altre. In Europa, meno in America, per difetti di mobilità dei lavoratori combinati con pochi investimenti per nuove iniziative a causa della tassazione disincentivante e gli alti costi e vincoli di sistema.
Inoltre l’Occidente non riesce ad avere forza geopolitica sufficiente per imporre ai Paesi emergenti più equilibrio nelle relazioni commerciali e valutarie globali. Per questi difetti le economie mature sono penalizzate: il capitale che esce dai Paesi ricchi verso gli emergenti non ritorna ai ricchi stessi in tempi e quantità utili per mantenerne la ricchezza.
Governi e sindacati occidentali stanno, con disperazione, tentando di attutire l’impatto impoverente di una globalizzazione squilibrata, ma più adattandosi all’impotenza che cercando di risolvere il problema. La soluzione sta nel riequilibrio del mercato globale perseguendo le condizioni dette sopra.
Se vogliamo mantenere la nostra ricchezza l’Occidente deve riorganizzarsi internamente, unirsi e darsi la forza geopolitica per governare il globo. In tanti lo diciamo da almeno 15 anni, ma la “grande politica” che dovrebbe farlo ancora non si vede. Qui, cari lettori in ansia e amici sindacalisti e politici in affanno, il vero problema.