Vorrei partire da una constatazione semplice. Misuriamo l’andamento del Paese principalmente attraverso due indicatori: il Pil e l’occupazione. Chi crea Pil e occupazione? Sono le imprese! Basterebbe questo per comprendere qual è il nesso tra imprese e sviluppo.

Troppo spesso, però, ce ne dimentichiamo, per diversi motivi. Innanzitutto perché guardiamo la realtà non a partire da ciò che è, ma semplificando tutto attraverso cliché, vale a dire definizioni riduttive. Nelle nostre facoltà di economia e di diritto si insegna che il fine dell’impresa è il profitto, inteso come profitto personale dell’imprenditore. L’impresa (più in generale l’iniziativa privata) viene così contrapposta al bene comune e al benessere collettivo.



Il comportamento dei nostri imprenditori, soprattutto piccoli e medi, nel corso di questi due anni di crisi dimostra il contrario. Hanno fatto di tutto per tenere duro, per non licenziare i propri dipendenti. In molti casi, lo hanno fatto in contraddizione con la pura “ragione economica”, di fronte cioè a dati che avrebbero consigliato di chiudere le attività e di licenziare, non certo – come invece molti hanno fatto – di immettere nuovi capitali personali in azienda.



Al di là della contingenza, come diceva Einaudi, “migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi”.



Questa frase esprime bene come, nell’impresa, la pura ragione economica sia necessaria, ma non sufficiente. C’è una ragione più profonda che spinge a fare impresa. Una ragione che arriva a comprendere la domanda, per quanto implicita, sul senso del vivere, sulla realizzazione di sé. Da questo punto di vista l’impresa non è più contrapposta al bene comune. Un’altra prova di questo sta nella decisione di Marchionne di investire venti miliardi di euro a Pomigliano, con una “delocalizzazione al contrario” della produzione della nuova Panda: dalla Polonia al Mezzogiorno d’Italia.

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Perché, allora, in Italia persiste una visione negativa dell’impresa e dell’imprenditore – ben documentata dalle norme (e dal lessico: permesso, autorizzazione, concessione, licenza, ecc.) che nel nostro Paese regolano la vita delle imprese? Perché al fondo persiste, contro ogni evidenza, una concezione negativa della persona e della sua iniziativa. La cosiddetta Legge Berlusconi (che ha eliminato i permessi ex-ante) e lo Statuto delle Imprese (che dovrebbe essere approvato entro l’anno) mirano a operare questa rivoluzione culturale: passare dal sospetto alla fiducia verso chi fa impresa.

 

Qual è allora la nuova politica industriale che serve alle imprese, per imboccare definitivamente la strada di un rinnovato sviluppo? Non certo quella vecchia, che dirigisticamente pretendeva di definire cosa è obsoleto e cosa è nuovo, per poi procedere con forti sussidi pubblici. La prima, nuova, politica è invece semplice: lasciare vivere le imprese. Può sembrare una formula semplicistica, ma non lo è affatto. Cosa è nuovo e cosa è obsoleto non può definirlo né la politica, né qualche burocrazia ministeriale. Lo definisce il mercato, come ben sanno gli imprenditori. Quante volte abbiamo sentito dire “il tale settore scomparirà dall’Italia” e non è mai scomparso? Basta poco.

 

Innanzitutto una politica fiscale che lasci i soldi nelle aziende, perché siano investiti in capitale umano, tecnologico e finanziario. Poi una seria politica di semplificazione, che elimini i mille lacci e laccioli che costano alle imprese oltre un punto di Pil (16 miliardi di euro all’anno) e che non occupi metà della giornata degli imprenditori nella produzione di… carta per la burocrazia, distogliendoli dal loro vero mestiere.

 

Gli altri interventi lo Stato dovrebbe farli su di sé, non sulle imprese: avviare infrastrutture per la mobilità; aprire alle imprese il grande patrimonio di conoscenze e competenze che c’è nei nostri centri di ricerca; rendere le rappresentanze all’estero punti di reale promozione delle nostre imprese; realizzare un sistema formativo all’altezza delle sfide dell’innovazione.

 

La prima politica per le imprese è lasciarle vivere, cioè dare loro più libertà. Perché il problema non è, come spesso sentiamo dire, il nostro sistema economico, ma il fatto di non credere in esso.

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