La vittoria è chiara e tutti la debbono accettare. Non è travolgente, solo nove voti di differenza tra gli operai. Dunque, sarà complesso gestirla, come ogni vittoria, anche la più schiacciante. La Cgil ottiene una sconfitta onorevole e un mezzo successo nei confronti della Fiom, la quale aveva giudicato illegittimo il referendum. Invece, i lavoratori sono andati a votare in massa, volevano esprimere la loro opinione e lo hanno fatto liberamente al punto che il no ha ottenuto 2.325 voti (contro 2.735 sì).
La Fiom conta appena 600 iscritti, dunque è stata in grado di far valere le proprie opinioni che hanno ottenuto un ampio consenso. La Fiat deve tenerne conto. La rappresentatività esiste, è nei fatti; contratto o legge vengono dopo. Detto questo, sarebbe molto grave se la Fiom non accettasse il risultato e cercasse una rivincita con una sorta di neoluddismo o di antistorica conflittualità permanente.
Cosa accadrà adesso? C’è in ballo il megapiano Fiat: i 20 miliardi di investimenti (finora ne sono stati impegnati solo tre), i nuovi modelli e via dicendo. Ma è meglio tenere distinti i due momenti. Se Marchionne non farà quel che ha detto, verrà punito dalla borsa, dagli azionisti, dai clienti, dal governo (speriamo). Spetta ai sindacati, vincitori e vinti, vigilare affinché i progetti vengano realizzati. Di qui a due anni, quando arriverà a regime la produzione, tante cose possono ancora cambiare in un mercato così volubile come quello dell’auto, tanto più in un ciclo economico segnato da debole crescita.
Ma l’ad Fiat ha sollevato una questione che riguarda il modello di relazioni industriali e, in quanto tale, è una questione nazionale; ha offerto la sua soluzione e ha segnato due importanti punti a favore. È di questo che bisogna dunque discutere, non mescolando fronti polemici diversi. In altri termini, se la Fiat riuscirà a fare auto che piacciono al mondo, sarà meglio per tutti, compresi i dipendenti, ma il problema di come regolare nell’Italia attuale i rapporti tra capitale e lavoro resta, anche se Marchionne viene cacciato.
A Mirafiori dovrà cominciare la ristrutturazione degli impianti. Nel frattempo, toccherà agli altri stabilimenti italiani, seguendo la ben nota strategia del carciofo. Cassino viene utilizzato al 25% e deve arrivare al 90%. Persino Melfi il gioiello di un tempo, la fabbrica più produttiva d’Europa, oggi ha un tasso di saturazione del 65%. Ciò dipende dal mercato, naturalmente, ma nel momento in cui arriva la ripresa, occorre avere una organizzazione del lavoro più efficiente possibile. In attesa di stipulare un contratto di settore che crei una griglia comune per tutti i produttori di veicoli. Allora la Fiat potrà tornare in Confindustria, si augura Emma Marcegaglia. Anche se sarà del tutto superfluo. Come lo è, in fondo, lo stesso contratto dell’auto.
Marchionne punta su accordi aziendali (anzi addirittura di stabilimento) volti a rendere sempre più individualizzate e specifiche le condizioni di utilizzo della forza lavoro; insomma, una contrattazione su misura, Taylor made. Sia pure in modo meno clamoroso, la stessa linea viene seguita in molti grandi gruppi come Merloni o Electrolux (gli impianti di elettrodomestici sono i più simili all’auto), per non parlare delle medie aziende meccaniche, della siderurgia (dove gli orari sono regolati in modo specifico), della chimica, del tessile. A questo punto, è meglio abbandonare impalcature barocche e semplificare al massimo: un contratto nazionale che serve come base di riferimento e poi accordi aziendali con il massimo di flessibilità. Sarebbe un vantaggio anche per i lavoratori perché l’appiattimento degli ultimi vent’anni ha schiacciato in modo insopportabile i salari.
E qui veniamo al ventre molle dell’intero sistema di relazioni industriali: la busta paga. “È finito lo scambio bassi salari bassa produttività”, ha detto Maurizio Sacconi. Ha ragione il ministro del Lavoro (bisognerebbe tornare a chiamarlo così anche per ridare valore simbolico al lavoro rispetto all’assistenza). Non basta, però, proclamare che si guadagna di più perché si produce di più. Questo è un truismo, una verità evidente. Occorre aumentare la base salariale. Lo squilibro è lampante, non solo in rapporto ai salari americani, tedeschi, francesi. Ma rispetto ai guadagni dei dipendenti pubblici italiani la cui produttività resta un tabù (il volenteroso ministro Brunetta lo sa bene). Perché un operaio di un’azienda marcia e inefficiente come l’Atac di Roma deve guadagnare più di un operaio Fiat e contare anche sul posto garantito?
Marchionne è andato in tv e ha dichiarato di essere disponibile ad aumentare le paghe. Sarebbe importante, allora, se in coda al contratto Mirafiori ci fosse una gratifica legata alla circostanza che la Fiat chiude l’anno in utile. Dividendi non solo per gli azionisti, ma anche per i dipendenti; un bonus per gli operai, anche se infinitamente più piccolo di quello che spetta ai manager. Come Ford, che stacca un assegno di cinquemila dollari. Gimme the money. Modello americano.
Un sistema contrattuale fondato sull’azienda, porta con sé una revisione della paga base e uno sventagliamento delle qualifiche in modo da premiare il mestiere, la professionalità. Di tutto questo non c’è traccia. Lo si rimanda al futuro contratto dell’auto o è un rinvio sine die? La Fiom perché presa a disquisire di diritti, Fim e Uilm per consumare la loro rivincita, fatto sta che i sindacati hanno trascurato proprio il cuore del rapporto tra capitale e lavoro: il salario. Lo diceva Smith un secolo prima di Marx.