Invece di appiattirsi sulla vicenda Fiat – che, per quanto straordinaria, ha contorni del tutto peculiari e irripetibili per la quasi totalità delle imprese italiane – basterebbe avere un po’ di memoria storica per ricordarci come, solo pochi anni fa, con l’avviso del processo di modernizzazione del nostro sistema di relazioni industriali, la Fiom-Cgil intendesse affidare al peso “politico” di un referendum tra i lavoratori del settore il compito di validare o meno la prima intesa separata tra Federmeccanica, Cisl e Uil sul rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici.
Nel minacciare il ricorso sistematico ai tribunali, per smontare pezzo dopo pezzo i contenuti delle intese di Pomigliano e Mirafiori, la Fiom-Cgil rinnega ora questa prospettiva ritenendo evidentemente irrilevante il giudizio della maggioranza dei lavoratori che in democrazia, ricordiamolo, è semplicemente il 50% più uno. Che cosa possa aggiungere ora una regolamentazione della rappresentanza sindacale, come propongono Cgil e Fiom, è difficile capire. Una legge sindacale che formalizzasse la regola maggioritaria non cambierebbe di certo gli esiti dei referendum di Mirafori e Pomigliano.
Tanto meno consentirebbe di comporre le tensioni e le profonde divisioni tra Cisl e Uil, da un lato, e Cgil, dall’altro lato, con una Fiom che, accentuando sempre più la propria vocazione di attore politico più che sindacale opera come battitore libero a tutto campo. Tensioni e divisioni che hanno radici profonde, ben al di là e ben prima del caso Fiat, e che vanno ricondotte a una diversa visione del ruolo dell’impresa, dalla Fiom vista come disvalore, e del sindacato stesso nella società.
A fronte di queste contrapposizioni – come già ricordava dieci anni fa Marco Biagi, nell’articolo che ripubblichiamo in questo numero di www.cuorecritica.it, proprio a commento della prima intesa separata sul contratto dei metalmeccanici – una legge sulla rappresentanza non solo non aiuterebbe a risolvere il problema, ma finirebbe anzi, molto probabilmente, per inasprire e ingigantire irreparabilmente le divisioni all’interno del sindacato legittimato a quel punto – come è nelle corde della Fiom-Cgil e come dimostra la vicenda Fiat – a chiamare sistematicamente in causa il giudice per ribaltare in sede giudiziaria gli esiti di una intesa separata o di una consultazione referendaria non gradita (non sarebbe forse possibile ritenere un referendum illegittimo, per vizi del consenso dei lavoratori, se si accedesse, come nel caso Fiat, alla tesi Fiom del ricatto? E non vi sarebbero forse nel nostro Paese giudici del lavoro pronti ad avallare, in chiave politica, questa tesi?).
Che sia così lo dimostra inequivocabilmente la vicenda della rappresentanza al Cnel e nei vari organismi istituzionali, dove il ricorso alla magistratura è diventato un appuntamento fisso al termine di ogni iter amministrativo volta a misurare il peso e la rappresentatività sindacale. E lo dimostra anche – come puntualmente segnalava Marco Biagi a margine della vicenda dell’accordo separato dei metalmeccanici – l’esperienza comparata. Su tutti il caso statunitense, spesso richiamato da Pietro Ichino a sostegno della sua proposta di legge sindacale, dove la legislazione del new deal ha cercato di favorire l’ingresso dei sindacati nelle aziende impedendo, al tempo stesso, la concorrenzialità tra diverse organizzazioni sindacali mediante la regola maggioritaria. Il risultato catastrofico di questa legislazione di sostegno è sotto gli occhi di tutti se è vero che, negli Stati Uniti, il sindacato americano è diventato un attore del tutto marginale.
Altra cosa è il problema dell’efficacia generale dei contratti collettivi, specie di quelli come Fiat sottoscritti a livello aziendale. Ma anche qui, ancora una volta, è l’esperienza comparata che indica come sia del tutto inconferente, specie per Paesi a noi vicini per tradizione giuridica e cultura di relazioni sindacali, una legge sulla rappresentanza. Come per esempio in Francia e Germania, dove la decisione di rendere i contratti collettivi vincolanti per tutti i lavoratori, a prescindere dall’adesione o meno al sindacato stipulante, è rimessa alla valutazione discrezionale – e insindacabile – del Ministro del Lavoro.
Saggia pare dunque la decisione del Governo di non intervenire in una materia retta, da oltre sessant’anni, dal principio costituzionale di libertà sindacale e di rendersi al contempo disponibile a recepire in legge un’eventuale intesa sulla rappresentanza, ma solo ove raggiunta unitariamente tra tutte le maggiori organizzazioni sindacali. Ciò che si chiede al Governo semmai, dopo il consolidamento della misura di detassazione agevolata a sostegno degli accordi aziendali e territoriali di produttività, è una decisa accelerazione sul tema della regolazione e incentivazione delle forme partecipative dei lavoratori alle decisioni d’impresa secondo decisioni libere e responsabili delle parti.
Ciò nella convinzione che l’economia della partecipazione è, allo stato, l’unica soluzione che concilia la solidarietà tipica del modello sociale europeo con l’efficienza richiesta dal mercato globale. Per allinearci al quadro regolatorio (legale e contrattuale) degli altri Paesi risulta invece non più rinviabile un intervento di ben altro respiro volto a segnare, come da tempo prospettato a partire dalle bozze Treu e Biagi di fine anni Novanta, il passaggio dallo Statuto dei lavoratori del 1970 allo Statuto dei nuovi lavori.
Quarant’anni di Statuto evidenziano gli enormi progressi compiuti a tutela della persona che lavora, ma anche tutta la distanza che separa l’impianto di questa legge dai nuovi modelli di produzione e di organizzazione del lavoro e dalla recente evoluzione di un mercato del lavoro che, in quanto sempre più terziarizzato e plurale, richiede assetti regolatori diversificati territorio per territorio, azienda per azienda, anche in deroga al contratto collettivo nazionale.
Là dove uno Statuto rigido come quello attuale, ancorato ai modelli e alle logiche di un passato che non c’è più, finisce per tradire la sua funzione storica che è ancora oggi pienamente attuale. Quella cioè di approntare, al di là delle tecniche e delle norme di dettaglio di volta in volta adottate, un sistema di tutele moderne e mobili tali da consentire il pieno sviluppo della persona attraverso il lavoro e nel lavoro.
(L’articolo è pubblicato anche su www.cuorecritica.it)