I dati su occupazione e disoccupazione pubblicati dall’Istat a inizio gennaio sono leggermente positivi per quanto riguarda il mercato del lavoro generalmente inteso e, in particolare, per l’occupazione femminile. Ma il dato che ha catturato i titoli dei giornali e l’interesse di politici e tecnici è il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 28,9%, aumentato di 0,9 punti percentuali rispetto al mese precedente.
Se guardiamo alle serie storiche, questo dato è quasi ininterrottamente crescente da gennaio 2008 (valore: 20,7%). In tre anni il tasso è salito di otto punti. Quattro solo nel 2009. È noto che gli effetti occupazionali negativi della crisi si sono ripercossi soprattutto sui giovani. In parte per la scelta esplicita di preferire la difesa del reddito del padre di famiglia rispetto a quella del ragazzo alle prime esperienze; in parte per la stessa conformazione degli ammortizzatori sociali italiani, che si rivolgono innanzitutto agli insiders (i dipendenti a tempo indeterminato) e solo residualmente agli outsiders (disoccupati e contratti atipici). Tuttavia le cause della debolezza dei giovani italiani nel mercato del lavoro non sono da ricercarsi innanzitutto nella crisi economica, ma nel combinato disposto di fattori culturali, istituzionali ed economici che sono in discussione da almeno quindici anni.
Senza affrontare la lunga storia di queste crepe strutturali, va osservato che mai come negli ultimi due anni il tema è stato richiamato anche dai decisori politici. Diverse sono le misure messe in campo dall’attuale Governo e la conferenza stampa di ieri tenuta dai Ministri che si occupano dei giovani (Sacconi, Gelmini, Meloni) è stata l’occasione per elencare (e, di conseguenza, valutare) le azioni compiute e programmate.
Essenzialmente sono otto le linee di azione (in buona parte anticipate nel Piano Giovani Italia 2020 dello scorso anno), che si dividono una spesa complessiva di circa un miliardo di euro: monitoraggio per il breve e lungo periodo delle professionalità richieste dal mercato del lavoro; orientamento alle scelte scolastiche e formative, a partire dalle scuole del primo ciclo; integrazione scuola-università-lavoro rivalutando la valenza culturale e formativa del lavoro; servizi di accompagnamento al lavoro; contratti di primo impiego; auto-imprenditorialità e accesso alle professioni; diffusione della cultura della previdenza e della sicurezza sul lavoro nelle scuole; contrasto al lavoro giovanile irregolare e sommerso.
Tralasciando l’analisi di temi molto complessi come la riforma delle secondarie e dell’Università e non considerando le misure più particolari (come gli incentivi all’auto-impiego o la diffusione della cultura previdenziale), dal punto di vista dell’occupazione giovanile i Ministri hanno concordato circa l’importanza di alcune misure già note.
Innanzitutto la promozione del contratto di apprendistato (in tutte le sue tre forme previste dalla legge Biagi del 2003). In questo senso si sono espressi Governo, Regioni e parti sociali lo scorso ottobre nell’Intesa per il rilancio dell’apprendistato. Il contratto di apprendistato, oltre a consentire la formazione del giovane lavoratore, è particolarmente vantaggioso per il datore di lavoro in ragione degli incentivi economici e normativi previsti dalla legge, che sono prolungati in caso di assunzione a tempo indeterminato.
In particolare, per il piccolo imprenditore l’apprendista è il dipendente che meno “costa”, ma ciò, a onor del vero, non supera la diffusa diffidenza verso questo strumento, causata da poca informazione e da un quadro regolatorio che ha ancora bisogno di interventi semplificatori. Una seconda misura sulla quale i Ministri stanno scommettendo è la diffusione presso le scuole superiori e le università di servizi di orientamento e accompagnamento al lavoro. Non si tratta certamente della cura ai tanti malanni che affliggono la cultura e le modalità di orientamento in Italia, ma certamente, qualora si diffondessero servizi di placement efficaci e competenti, sarebbe un primo passo verso il superamento della malattia.
Ulteriore e connessa azione concreta sulla quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sta investendo risorse pubbliche è il monitoraggio del fabbisogno formativo. Concretamente si tratta di rimodulare uno strumento che già esiste, il Sistema Informativo Excelsior, al fine di identificare, a cadenza trimestrale, le principali tendenze delle professioni richieste dal mercato del lavoro in ciascuna provincia.
Lo scopo ultimo è indirizzare l’offerta formativa degli istituti scolastici (in particolare quelli tecnico-professionali), informare gli orientatori e aiutare le scelte di ragazzi e famiglie. Nell’ultimo anno diversi centri di ricerca istituzionali (come l’Istat) e privati (come il Centri Studi di Confartigianato) hanno fotografato, nonostante la crisi e l’alta disoccupazione giovanile, un crescente numero di posizioni di lavoro vacanti perché difficilmente reperibili i profili professionali adeguati. Superare l’abitudine a leggere il fabbisogno formativo solo sul lungo periodo e ampliare la base campionaria sono misure per contribuire a pareggiare il marcato disallineamento formativo e professionale che si è osserva nel mercato del lavoro.
Ancora, il cosiddetto Collegato Lavoro, approvato recentemente, prevede che gli atenei rendano pubblici sui propri siti internet, per almeno un anno, i curricula dei laureati. Nella stessa direzione vanno anche le sperimentazioni che intendono rendere più fluida la circolazione delle informazioni (si pensi al primo portale pubblico di incontro domanda-offerta di lavoro, “cliclavoro”), che i recenti vincitori del Premio Nobel per l’economia hanno dimostrato essere la principale causa della disoccupazione strutturale nel mercato del lavoro. Da ultimo, è da vedersi con favore il tentativo di superamento del fosso tra formazione e mondo del lavoro da attuarsi con l’ampliamento delle possibilità di alternanza scuola lavoro e con l’istituzione, per la prima volta nel nostro sistema di istruzione, di 58 istituti tecnici superiori quali “Scuole speciali di tecnologia”.
Le idee, quindi, non mancano e ora bisognerà valutarne l’efficacia. I recenti dati pubblicati dall’Istat citati in apertura inducono però a riflessioni ulteriori. È facilmente verificabile l’impossibilità di spiegare l’alto tasso di disoccupazione giovanile calcolando il peso delle vacancies e l’effetto delle informazioni asimmetriche sul mercato. La somma di posti non coperti (che per la stessa Istat sono in crescita, come dimostra la Nota Informativa di fine 2010) non pareggia il numero di ragazzi senza lavoro. È quindi importante concentrare l’attenzione su alcuni specifici punti di debolezza dei giovani italiani nella ricerca del posto di lavoro, anche e soprattutto in chiave comparata. Senza dilungarsi, sono almeno cinque le caratteristiche richieste più diffusamente dalle imprese che risultano incoerenti con il profilo statistico dei ragazzi italiani.
La prima skill è riassumibile nell’espressione: una laurea “buona”, dove l’aggettivo sta a significare spendibile sul mercato del lavoro perché capace di formare delle conoscenze di base utili e concrete. Non è un mistero che le lauree più apprezzate dalle piccole e grandi aziende e istituzioni italiane siano ingegneria, matematica, economia, statistica, informatica e infermeria. Ciononostante, stando ai dati dell’anagrafe del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, le lauree più frequentate, oltre a economia, sono giurisprudenza, lettere e scienze politiche.
Una seconda caratteristica è l’assolvimento del periodo di istruzione in tempi “naturali”. Le aziende non amano i ritardatari, quand’anche il ritardo sia giustificato con il massimo dei voti. A questo proposito va osservato (ancora dati anagrafe del Miur) che il 50,5% dei laureati specialistici italiani e il 60,1% dei triennali conclude gli studi fuori corso di almeno un anno e che circa il 15% degli studenti delle scuole superiori è ripetente.
Terzo fattore discriminante in sede di colloquio di lavoro è la disponibilità alla mobilità. A livello europeo questa particolare statistica (Eurobarometro 2005) calcola che i giovani italiani, insieme ai coetanei slovacchi, polacchi e lituani, sono i meno disponibili a trasferirsi per lavoro.
Una delle cause del timore di spostamento appena descritto è la quarta e notissima competenza: la conoscenza della lingua inglese. Stando ai dati sul Knowledge level of the best known foreign language forniti dall’Eurostat, in Italia la maggior parte della popolazione lavorativa “giovane” (25-34 anni) conosce l’inglese solo “discretamente”, mentre è bassa la percentuale di chi lo possiede fluentemente, a differenza di quanto avviene per i nostri competitor europei (in particolare la Germania e i Paesi Scandinavi).
È assai nota anche la debolezza dei diplomati e laureati italiani per quanto riguarda le esperienze lavorative (quinta caratteristica ricercata). La nostra età media al momento del primo impiego è 22 anni, contro i 16,7 anni dei tedeschi, i 17 degli inglesi, i 17,8 dei danesi. Nel Mezzogiorno solo il 9,2% dei giovani ha svolto attività lavorative durante il percorso scolastico. Percentuali basse anche altrove: 19,6% al Nord e 17,5% al Centro.
La sfida sta tutta qui: provare a costruire percorsi formativi (sia scolastici che professionali) che, senza dimenticare un’impostazione di metodo, tengano conto della realtà, quella vera.