Ancora una volta le scelte politiche sull’immigrazione sembrano dettate dalla ricerca di un sommario compromesso tra esigenze del tutto diverse. Da una parte c’è la volontà esplicita di limitare il più possibile i nuovi ingressi; dall’altra c’è l’esigenza di rispondere alla domanda (anche se inferiore rispetto agli anni precedenti a causa della crisi) di lavoratori sia da parte delle imprese private, sia da parte di realtà pubbliche, come gli ospedali che faticano a reclutare nuovi infermieri, sia da parte delle famiglie per le colf e le badanti; senza dimenticare la necessità di regolarizzare almeno in parte la forte quota di immigrati clandestini determinata dall’impossibilità di accedere alle precedenti sanatorie.
E’ nato così, con la pubblicazione sull’ultimo numero utile del 2010 della Gazzetta Ufficiale, il cosiddetto “decreto flussi” con cui si promettono centomila permessi di lavoro entro i primi mesi di quest’anno. E’ difficile stimare quante siano in realtà le offerte potenziali di nuovi permessi di lavoro: è certo comunque che quota centomila si dimostrerà largamente insufficiente anche se, ovviamente, il decreto non prevede quote per i cittadini comunitari, come i rumeni.
Ma ci sono altri particolari che dimostrano come la politica verso l’immigrazione sia dettata da un insieme di preoccupazioni formali che si associano all’improvvisazione nei regolamenti. E’ significativo per esempio che l’Italia abbia sottoscritto accordi di cooperazione in materia migratoria solo con quattro paesi: l’Egitto, che avrà a disposizione 8mila permessi, la Moldavia (5.200), l’Albania e il Marocco (4.500 ognuno). Per tutti gli altri paesi si è attuata una distribuzione a pioggia decisa semplicemente a tavolino.
Gli ulteriori permessi saranno così 1.000 per i cittadini algerini, 2.400 per quelli del Bangladesh, 4.000 per i filippini, 2.000 per i ghanesi, 1.500 per i nigeriani, 1.000 per i pakistani, 2.000 per i senegalesi, solo 80 per i somali, 3.500 per i cittadini dello Sri Lanka, 4.000 per i tunisini, 1.800 per gli indiani, altri 1.800 per i peruviani, ancora 1.800 per gli ucraini, 1.000 per cittadini del Niger (che non sono i nigeriani), e altrettanti per i cittadini del Gambia. Come dire che con tutti questi paesi non c’è alcuna collaborazione tra i governi e quindi nessun controllo sull’effettiva rispondenza della domanda di emigrazione con l’offerta di lavoro in Italia.
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In effetti ancora una volta si dimostra che il decreto flussi costituisce soprattutto una sanatoria mascherata. Il decreto prevede che il lavoratore ottenga il permesso di lavoro nel proprio paese di origine e quindi in teoria questi dovrebbe uscire clandestinamente dall’Italia perché un’eventuale segnalazione di espatrio renderebbe impossibile l’ottenimento del permesso di lavoro. Tutto questo "in teoria" perché manca l’effettiva possibilità di controllo mentre peraltro resta forte l’esigenza (politicamente scorretta) di regolarizzare gli immigrati già presenti e che allargano le truppe del lavoro nero e sommerso.
In tutto questo tuttavia non si vede traccia di una reale e costruttiva politica dell’immigrazione, una politica che non vuol certo dire aprire comunque le porte a tutti, ma vuol dire soprattutto realizzare una strada di rispettosa integrazione.
La linea è indicata molto bene nel libro "Immigrazione" di Giorgio Paolucci (ed. Viverein, pagg. 90, € 5), un libro in cui sinteticamente si traccia un quadro efficace dei problemi degli stranieri in Italia. «Gli immigrati, scrive Paolucci, devono innanzitutto potersi misurare con una proposta forte di convivenza che parta da ciò che siamo, dalla storia alla quale apparteniamo e da cui siamo stati generati, e che insieme sia capace di intercettare positivamente i contributi umani e valoriali portati da quanti si affacciano nel nostro paese». Il modello è quello, certamente difficile e complesso, dell’"identità arricchita": perché l’accoglienza e l’integrazione possa partire dal riconoscimento forte dell’identità del popolo e dei valori comuni.
Una dimensione costruttiva quindi, una sfida aperta che ha bisogno anche di buone regole e di sana amministrazione. E in molte realtà locali è questa una dinamica già presente e che sembra dare buoni frutti.