La lettera di Silvio Berlusconi indirizzata a Herman Van Rompuy, Presidente del Consiglio europeo, e a José Manuel Barroso, Presidente della Commissione Ue, è giunta a Bruxelles, corredata delle misure che il governo italiano intende adottare per “una finanza pubblica – recita il testo della missiva – sostenibile e per creare condizioni strutturali favorevoli alla crescita. I singoli punti sono corredati da un calendario per la loro concreta applicazione”. Dalle indiscrezioni di queste ore sembra che tra i singoli provvedimenti promessi dall’esecutivo ci sia l’innalzamento graduale dell’età pensionabile, sia per gli uomini che per le donne, a 67 anni (che entrerà a regime dal 2026), oltre a norme per rendere più flessibile il mercato del lavoro e agevolare il licenziamento nelle imprese in forte crisi. Per commentare queste misure abbiamo interpellato Giorgio Santini, Segretario generale aggiunto della Cisl.
Partiamo dalle misure relative ai licenziamenti: cosa ne pensa? I lavoratori saranno più a rischio?
Occorrerà vedere nel concreto quali provvedimenti prenderà il Governo. Per ora nella missiva si fa riferimento a un generico intervento entro la metà dell’anno prossimo che sembra muoversi nella direzione già indicata dalla Bce nella sua lettera all’Italia dello scorso 5 agosto. Occorre però fare informazione sul tema dei licenziamenti, perché forse non è ben chiaro in che modo possono avvenire nel nostro Paese.
Ci spieghi allora.
Al momento esiste le legge 223/91 che regola i licenziamenti collettivi nei casi di riduzione, trasformazione o cessazione dell’attività aziendale e che prevede l’utilizzo della mobilità e di strumenti che riescono in qualche modo a rispondere sia alle esigenze delle imprese che ai bisogni dei lavoratori. Altra questione è quella che riguarda i licenziamenti individuali senza giusta causa (un numero molto modesto rispetto al totale), che chiamano in causa il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
È forse qui che si vuol cercare di intervenire, magari trasformando il diritto alla reintegra nel posto di lavoro nella possibilità di erogazione di un indennizzo da parte dell’impresa.
In realtà, la reintegra è molto “teorica”, nel senso che i fatti dimostrano che il 90% delle cause per licenziamenti senza giusta causa finisce dopo 5-6 anni con una transazione economica, spesso di notevole entità. Mi sembra quindi poco opportuno far diventare quel 10% di cause vinte con la reintegra, seppur dotato di grande valenza simbolica, un elemento su cui fondare una politica per rendere più flessibile il mercato del lavoro. Certo, ci sarebbe una possibilità intermedia.
Quale?
Penso che l’Italia sia ormai matura per passare a un sistema già vigore in altri paesi, come la Germania, dove al giudice viene data dalla legge la possibilità di scegliere tra reintegra e indennizzo. Governo e Parlamento potrebbero quindi apportare questa miglioria nella nostra legislazione, rendendo “normale” quel che di fatto avviene già nei tribunali. Mi sembra però che ci sia un clima politico troppo avvelenato per farlo. Credo sia meglio quindi spegnere i riflettori su questo tema e concentrarsi su ammortizzatori sociali, politiche attive, outplacement: tutti strumenti che in questi tre anni di crisi, faticosamente ma proficuamente, sono stati messi in campo.
Passando al tema delle pensioni, tutti i sindacati sembrano contrari a ogni sorta di intervento. Perché?
Sulle pensioni dal ‘95 in poi ci sono stati continui interventi: il risultato è che abbiamo un sistema previdenziale tendenzialmente in equilibrio, perché sono stati migliorati i tre fattori fondamentali di potenziale squilibrio. Il primo riguardava il sistema retributivo, che era quello che caricava sull’ultima parte della vita lavorativa il valore della pensione. Ora, con il passaggio al sistema contributivo, si riceve in base a quanto si è versato. Tanto che ci sarà un problema (che si farà vedere nel momento di andare in pensione) per i giovani che hanno periodi di inattività o un ingresso tardivo nel mondo del lavoro.
Quali sono gli atri due fattori di squilibrio che sono stati sistemati?
Il secondo era l’allungamento della vita media; ora, però, c’è già dallo scorso anno l’adeguamento automatico triennale dell’età pensionabile in base alle aspettative di vita. Il terzo riguarda la differenza di età tra uomini e donne, già colmata nel pubblico, e che gradualmente sparirà anche nel privato. Detto questo, non ci sono molti altri squilibri, anche per quel che riguarda le pensioni di anzianità.
Eppure è su quest’ultime che ci sono stati più attriti all’interno della maggioranza.
Oggi per andare in pensione senza vincoli di età servono 40 anni di contributi (41 con la finestra mobile) e bisogna avere almeno 61 anni. Francamente mi pare che 40 anni siano un requisito più che legittimo per andare in quiescenza. Certo, in futuro ci saranno ancora (seppur pochissime migliaia) persone che avendo iniziato a lavorare in giovane età potranno andare in pensione prima degli altri. Se si vuole intervenire su questo versante, la strada giusta, già percorsa in passato, sarebbe quella di incentivare economicamente la loro permanenza sul posto di lavoro. In ogni caso, quello che ci preoccupa della proposta del Governo è altro.
Ci spieghi.
Il Governo non sembra avere l’esigenza di trovare una qualche stabilità del sistema previdenziale, ma di reperire risorse. Dato che la spesa previdenziale ammonta a circa 250 miliardi di euro, è chiaro che se si allontana di uno-due anni l’uscita di migliaia di persone dal lavoro automaticamente si recuperano fondi. Ma questa la logica non è corretta: se servono risorse, credo che sia giusto chiedere a tutti gli italiani, a partire da chi ha di più, di dare di più. Per esempio, attraverso una mini-patrimoniale sugli immobili che escluda la prima casa. Non possiamo permettere che le pensioni vengano messe in discussione per fare cassa.
(Lorenzo Torrisi)