Vista da lontano, la decisione di Marchionne di portare Fiat fuori da Confindustria non stupisce più che tanto. L’Amministratore delegato del Lingotto ha sin dall’inizio deciso di affrontare di petto la crisi economica che stava colpendo mortalmente il settore dell’auto. Quasi infischiandosene di certe “tradizioni” del sistema di relazioni industriali italiano. E così dopo un anno di eco-incentivi (una delle ricette preferite dalla politica industriale del Bel Paese), Marchionne ha anche potuto dire che lo stabilimento di Termini Imerese non poteva rimanere aperto, ha potuto dire che Pomigliano d’Arco rischiava la stessa sorte se non portava ritmi e contratti di lavoro a livelli più vicini ai competitor internazionali.
Si è arrivati quindi al famoso piano Fabbrica Italia: Fiat si metteva contro i sindacati, o meglio una parte di essi. Montezemolo probabilmente non a caso lasciava la presidenza del gruppo mentre il suo Amministratore delegato lanciava una serie di “diktat” ai sindacati, al sistema confindustriale, alla politica.
I primi si sono mossi: Cisl e Uil accettando i contratti di Pomigliano e Mirafiori, la Cgil arrivando fino alla soglia dell’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, dove si apre alle deroghe al Contratto collettivo nazionale di categoria. Solo la Fiom sceglieva, alla fine con scarso successo, la via dei tribunali. Il governo è arrivato fino al punto di inserire nella manovra finanziaria una norma (oltre alla cosiddetta “salva-Fiat”) che regola i rapporti fra le parti sociali. Un qualcosa che fino ad allora appariva agli occhi del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, come un’autentica eresia.
E Confindustria? Mentre da un lato lavorava per l’accordo interconfederale che sarebbe servito a tutto il sistema economico italiano, dall’altro ha cercato di disinnescare la “bomba” contenuta nella finanziaria. E forse proprio per portare a casa la firma della Cgil, il 21 settembre ha dovuto mollare il colpo: l’articolo 8 resta, ma né i sindacati, né Confindustria firmeranno accordi riguardanti la possibilità di derogare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Insomma, probabilmente Confindustria ha dovuto fare una scelta tra il perdere un grosso “cliente” come Fiat o avere tutte le confederazioni sindacali sul piede di guerra, in un periodo già difficile per l’economia italiana. Quanto avrà contato in questa scelta il parere di un Presidente ormai uscente? E quanto l’opportunità di neutralizzare una norma approvata da un governo che si sta cercando sempre più di condizionare e “affondare”?
Domande che resteranno ancora aperte, almeno come altre tre fondamentali per il futuro dell’Italia: Confindustria perderà altri pezzi per strada pur di non riformare il sistema delle relazioni industriali in Italia? O saranno i sindacati a difendere fino alla morte il totem inutile (di questo si tratta dato che la norma non si può applicare nel 95% delle imprese italiane) dell’articolo 18? Infine, che ne sarà della Fiat di Marchionne: davvero produrrà nuovi modelli in Italia (come sembra visto il suo “strappo” con Confindustria) o il suo sarà un effimero trionfo dell’ingegneria finanziaria?