Cattive nuove dall’Istat, secondo cui, a settembre, la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è salita al 29,3%, dal 28% di agosto. È il tasso più alto da gennaio 2004, quando ebbero inizio le serie storiche. «Le imprese faticano ad assumere, certo. Ma all’aggravio contribuiscono alcune componenti politiche e culturali», spiega, interpellato da ilSussidiario.net, Emilio Colombo, professore di Economia internazionale della Bicocca di Milano. Il dato stupisce ancora di più se confrontato con quello della disoccupazione in generale. Che, per quanto non sia entusiasmante, è pur sempre a una cifra: a settembre, infatti, si è attestata all’8,3%, dall’8,0% di agosto, raggiungendo i livelli del novembre 2010.
«L’incremento, in primo luogo – continua Colombo -, è congiunturale. I dati sulla disoccupazione, in genere, seguono il ciclo economico. Spesso, con un ritardo approssimativo di sei mesi-un anno. Il problema è che gli ammortizzatori sociali posti in essere durante la fase recessiva – come la Cassa integrazione guadagni – tutelano quelli che già sono dentro». Un cane che si mangia la coda. «Chi ha un posto lo mantiene; chi, invece, non è ancora riuscito a entrare – tipicamente i giovani – è sempre più, così, ostacolato nel farlo».In tal senso, a poco valgono le proposte della politica. «Il dibattito sulla flessibilità del mercato del lavoro e sui licenziamenti facili, che ha provocato una situazione di muro contro muro tra governo e sindacati, è sterile. In termini di flessibilità, l’Italia ha già tutti gli strumenti normativi che servono. Ciò che occorre è che le imprese abbiano la volontà di assumere. Il che non può prescindere dallo scenario economico».
Tuttavia, la situazione giovanile è legata anche a un secondo paradossale motivo. «A quanto si apprende dai dati Excelsior, il 30% delle assunzioni previste dalle imprese dei più svariati settori è considerato di difficile reperimento. Significa che, nonostante la fase congiunturale, faticano a trovare persone da assumere». In particolare, c’è carenza di alcune determinate categorie: «È difficile reperire personale con competenze tecniche più o meno qualificate; come, ad esempio, i laureati in chimica o gli operai specializzati».
Le ragioni del problema sono culturali: «Molti giovani preferiscono lavorare nei call center piuttosto che fare l’idraulico. Lo considerano poco dignitoso; e sono ignari delle reali possibilità di guadagno. La scarsa informazione si lega a una formazione professionale, in Italia, del tutto insufficiente».
Un terzo elemento è legato alle cosiddette gabbie salariali. «Sappiamo tutti che i costi della vita variano di città in città e di regione in regione. Ma il quadro di riferimento normativo, il contratto nazionale, deve esser applicato allo stesso modo ovunque. Non ci sono ragioni per non modificare adeguandoli alla situazione reale del contesto geografico. Salvo quelle politiche».
(Paolo Nessi)