L’ultimo rilievo dell’Istat circa la disoccupazione giovanile registra il dato più alto dal 2004: il 29,3% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro. In una sua recente pubblicazione (Politica senza classe), Franz Foti, docente di Scienze della Comunicazione presso l’Università statale dell’Insubria di Varese, ha analizzato nel merito fenomeni sociali, economici e culturali e gli effetti che lo stallo politico degli ultimi tempi e le lacune di una politica poco improntata a una vera dialettica hanno prodotto a scapito di un Paese bisognoso più che mai di progettualità. L’economia e il lavoro soffrono naturalmente di poco sviluppo: si parla da tempo dello scollamento tra istruzione-formazione e lavoro e dell’importanza dell’alternanza scuola-lavoro. Certo è che, al di là della recente riforma dell’apprendistato che nasce anche su questi presupposti, la decadenza dell’istruzione italiana (le università italiane sono state fino agli anni ‘60 dei veri e propri centri di elite culturale, negli anni ‘50 dagli Istituti di fisica venivano fuori gli allievi di Fermi) e della scuola professionale è piuttosto preoccupante.



È questo il motivo principale della difficoltà dei giovani nel momento dell’ingresso nel mercato del lavoro e della svalutazione delle professioni manuali e dell’artigianato. Anzi, secondo l’autore, alcune delle gravi responsabilità del sistema politico consistono proprio nello smantellamento di una parte importante dell’artigianato (vetro, mobile, tessile, abbigliamento, ecc.), e nella riduzione delle capacità di specializzazione dei mestieri e delle professioni negli istituti professionali. Le difficoltà politiche e sociali che viviamo e lo stallo che producono, creano difficoltà a un nuovo spirito imprenditoriale e civile fatto di “desideri”. Quest’incertezza, questa mancanza di propulsione mentale e sociale, la si coglie ovunque e tende a riproporre il meccanismo della depressione strisciante, esistenziale e culturale, ancor prima che economica.



Ecco perché la scuola è il terreno principale su cui riedificare. Tuttavia, il problema della transizione dalla scuola (e dall’università) al lavoro è significativo. Domanda e offerta di lavoro hanno difficoltà a incontrarsi, i giovani ne soffrono e si affacciano tardivamente al lavoro: in media, l’età del primo impiego è 22 anni, contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. E questo perché i giovani non sono facilitati nel comprendere che il lavoro è il luogo dove imparare. Coloro che si affacciano sul mercato del lavoro per la prima volta, non possiedono competenze, bensì conoscenze. La competenza è un saper fare, non è un sapere.



I giovani appena usciti dal mondo della scuola e dell’università non hanno competenze, hanno attitudini e conoscenze, pur nella convinzione di essere competenti. Questo determina un atteggiamento rigido nella ricerca del lavoro, mentre il lavoro oggi richiede flessibilità. Flessibilità non solo e non soltanto di tipo contrattuale – la maggior parte dei contratti di lavoro è comunque a tempo non definito -, ma anche flessibilità nelle proprie competenze: disponibilità ad aggiornarle e adattarle alle richieste del mercato.

Ecco l’importanza che ha oggi l’orientamento professionale, cha ha il non facile compito di prendere per mano il giovane e di accompagnarlo nelle continue trasformazioni. È ciò che può raccordare scuola e lavoro, perché la prima è lontana dal secondo e dal suo repentino cambiamento che, per dirsi tale, deve essere del sistema, non solo del mercato. Ecco che Franz Foti chiama in causa la Pubblica amministrazione innanzitutto. Chiede che qualsiasi progetto che produca riflessi economici e occupazionali venga commisurato all’impatto generazionale.

Vale a dire quali vantaggi ne trarranno le nuove generazioni da quel progetto e quale tipo di coinvolgimento si prevede per loro. Se questo indirizzo, sostiene Foti, lo si applicasse a tutte le attività che si propongono in sede pubblica e parapubblica, una buona parte della disoccupazione giovanile verrebbe prosciugata in breve tempo.