Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, parlando al Congresso dell’associazione magistrati minorili, ha speso parole preoccupate per la situazione giovanile. In particolare si è concentrato sul problema dei salari di ingresso nel mercato del lavoro: quelli dei giovani che cominciano a lavorare, ha detto, sono su livelli pari ad alcuni decenni fa. Cioè estremamente bassi  e non in linea con l’andamento del mondo del lavoro. Per Visco, i giovani che entrano nel mercato del lavoro sarebbero esclusi dai benefici della crescita del reddito degli ultimi decenni. IlSussidiario.net ha chiesto a Mario Mezzanzanica, professore associato di Sistemi informativi nella facoltà di Scienze statistiche dell’Università di Milano Bicocca, di chiarire cosa comporti esattamente questo dato: «Se vogliamo un indicatore per sapere se un Paese cresce o no, dovremmo vederlo proprio dalla capacità che questo Paese ha di essere attrattivo verso il mercato dei giovani». Aggiungendo che «oggi in Italia non è così: sono anni che il mercato del lavoro è sbarrato per i più giovani».



Professore, cosa vuol dire che gli stipendi di ingresso dei giovani sono fermi a livelli di molti anni fa?

Gli stipendi sono bassi, molto più bassi della regola, quando l’ingresso al lavoro è attivato attraverso forme atipiche, ad esempio gli stage. Un fenomeno questo che si è accentuato con l’inizio della crisi nell’estate del 2008. Questa situazione è collegata alle difficoltà economiche e finanziarie che le imprese hanno avuto per la crisi. Teniamo conto che in Italia esiste un sistema di imprese molto particolare, fatto essenzialmente da piccole e medie imprese che fanno ancora più fatica a inserire i giovani. Nei momenti di contrazione come quello che stiamo vivendo, le piccole e medie imprese subiscono i danni maggiori e di conseguenza si crea difficoltà per l’ingresso dei giovani.



Quanto pesa l’attuale situazione del mercato del lavoro a livello generale con questo problema?

È una problematica che nasce da una concezione, da una visione degli affari che si è stabilita negli ultimi anni e che è emersa con particolare criticità di fronte alla crisi. Intendo una concezione che considera gli affari a tempo breve, con una visione trimestrale come, ad esempio, testimonia la Borsa. Una volta le imprese progettavano prodotti e servizi sviluppando il proprio capitale umano e sviluppando il proprio sistema produttivo, oggi con una visione breve degli affari si limitano ancora di più le possibilità per i giovani.



È possibile dire che il mondo dell’istruzione abbia un qualche collegamento con questa situazione?

Quando si parla di giovani il problema è da dividersi in due parti. Da una abbiamo i diplomati delle scuole superiori che provengono da scuole tecniche che negli anni hanno perso una loro capacità di relazione con il mercato. Prima erano scuole che aiutavano fortemente nella crescita di una professionalità, oggi sono scuole che molto spesso sono solo dei licei di secondo livello.

Questo che conseguenze produce?

Blocca l’ingresso del giovane perché la barriera all’ingresso del mondo del lavoro si fa ancora più elevata. Questa visione poi vale anche per alcune facoltà e corsi universitari, un fenomeno che quindi nel nostro Paese è il segno di una distanza del mondo dell’istruzione dal mondo del lavoro. Colpa di politiche poco attente soprattutto da parte del mondo dell’istruzione. Una volta, se  le imprese correvano il rischio di far crescere i giovani che non avevano comunque un livello di capacità professionale immediata accettando questa sfida, oggi non è per niente così evidente. Le imprese non colgono la sfida e questo è frutto della cultura dell’impresa che oggi si ha.

Che rischio ci troviamo dunque davanti?

Il rischio dell’innalzarsi delle barriere tra le generazioni e la crescita dell’atto tasso di disoccupazione giovanile è una conseguenza di questa situazione. E anche di una perdita di capitale umano nell’impresa: non investire sui giovani significa perdere la concezione che l’impresa si sviluppi soprattutto sulla risorsa più cara di oggi cioè il capitale umano. In parole brevi, non si punta più sullo sviluppo.

Lei crede che il nuovo esecutivo porrà questa situazione al centro del proprio impegno?

Da quanto il nuovo governo Monti ha detto sin dall’inizio a livello programmatico, è stata subito posta l’attenzione sui giovani e sulle donne come fondamentali per la crescita e lo sviluppo. Credo sia una attenzione primaria e credo anche che oggi questa attenzione sui giovani debba avere due connotati.

Quali?

Il primo è la capacità di rivalorizzare e reinvestire cambiando anche alcuni aspetti critici del sistema dell’istruzione e della formazione, sia della scuola superiore che dell’università.  Il secondo è far sì che ci sia più capacità di questi sistemi di dialogare con il mondo delle aziende. Teniamo presente che oggi il nostro sistema universitario ha un contributo nello sviluppo delle proprie attività da parte di privati o enti pubblici  tra i più bassi che ci sono in Europa. Questo  è un limite forte di una non cultura di chi governa nel favorire lo sviluppo e l’integrazione tra istruzione e mercato del lavoro.

Il mondo del lavoro dovrebbe dunque investire nell’istruzione.

Sì, ma c’è  anche mancanza da parte delle università di autonomie e capacità  di dialogare con le imprese perché queste investano sull’istruzione. Non è un caso che un’azienda che investe nell’istruzione ha una detrazione bassissima: in altri Paesi investendo in istruzione si detrae completamente dalle tasse