Dopo anni di benessere economico (a debito, stiamo scoprendo ora) in cui la discussione giuslavoristica si è concentrata principalmente su temi quali la redistribuzione del reddito, il minor orario di lavoro, le politiche salariali, stiamo ora riscoprendo il nocciolo di ogni azione politica e sindacale nell’ambito del lavoro: la creazione di occupazione (e quindi il contrasto alla disoccupazione). Ciò che in questo momento sembra mancare non sono i tanti, e pur importanti, fattori di cornice al problema del lavoro, ma il lavoro stesso. Abituata al tranquillo trascorrere del progresso economico e immemore dei periodi recessivi già attraversati, la nostra società si sta scoprendo incapace di fronteggiare una sempre più consistente emergenza occupazionale.
La crescente attenzione verso la normativa lavoristica, alla quale sono affidate improbabili capacità di creazione di posti di lavoro, è prova di questo spaesamento complessivo. Certamente il nostro diritto del lavoro ha bisogno di sostanziali aggiornamenti che lo rendano capace di capire la moderna frenesia del mercato e la variopinta gamma delle nuove professioni e mestieri, ma non è la legge che plasma i posti di lavoro. Il quadro normativo entro cui gli operatori economici e sociali operano ha però il potere di incentivare o disincentivare politiche virtuose e coraggiose, quali quelle che occorrono in questi anni. In questo senso la regolazione pubblica è unanimemente considerata fattore di ritardo del nostro Paese. Impietosamente, ogni anno, la Banca Mondiale ce lo ricorda piazzandoci, nella speciale classifica sulla facilità d’impresa (Doing Business Report) tra gli ultimi Paesi occidentali (quest’anno 87esimi su 183 Stati). E’ quindi necessaria una complessiva semplificazione.
Anche la normativa sul lavoro è in attesa di una revisione. Il nuovo Governo si è imposto di “favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne” e, soprattutto, di riformare “le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale”. Il premier Monti ha comunicato al Senato che “le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere più equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale e anche di facilitare la crescita della produttività, tenendo conto dell’eterogeneità che contraddistingue in particolare l’economia italiana”. La strada pare quella di costruire un nuovo ordinamento che “verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavoro regolari e stabili in essere.” Si tratta di un impegno serio, ambizioso e tutt’altro che semplice.
La diagnosi è difficilmente contestabile: il nostro mercato del lavoro è certamente duale. I precetti legislativi sedimentatisi nel tempo, ben incoraggiati da posizioni conservative del sindacato, hanno generato una netta separazione tra lavoratori (iper)protetti e lavoratori in balia dell’andamento economico e delle convenienze aziendali. La componente debole nei rapporti di lavoro non è più l’operaio di fabbrica, ora sindacalizzato e oggetto di una normativa profilata sull’economia secondaria, ma il giovane che si affaccia alle prime esperienze professionali, districandosi tra stages, falsi contratti a progetto, partite IVA ben poco autonome, gestione separata, promesse non mantenute “perché non c’è budget” (ma solo spazio per un altro tirocinante…).
A differenza di quell’operaio però, questo giovane è lontano dalle attenzioni del sindacato, svantaggiato dall’atteggiamento egoistico di chi il posto di lavoro sicuro ce l’ha e unico destinatario/vittima delle riforme degli ultimi anni, da quelle previdenziali a quelle contrattuali. Non è un caso che l’azione dell’ex Ministro Sacconi, in linea con quanto prefissato dal nuovo Esecutivo, si sia conclusa proprio con la promozione dell’occupazione giovanile per il tramite del nuovo contratto di apprendistato.
Quindi? È da seguire con interesse e curiosità il progetto che il Governo varerà nei prossimi giorni. L’esplicito accenno all’ideazione di una riforma solo per i “nuovi rapporti di lavoro”, indipendentemente da eventuali profili di incostituzionalità, sembra però andare in direzione opposta al superamento di quel dualismo che pure si promette di sanare. Anzi, parrebbe istituzionalizzarlo ancor più, per via legislativa.
La strada per evitare operazioni tanto teoriche, quanto inefficaci, è ancora una volta quella del coinvolgimento diretto di associazioni datoriali e sindacali, degli imprenditori e dei lavoratori, in forza del principio sussidiario che più si è prossimi al “problema” più se ne conoscono le caratteristiche e le possibili soluzioni. Tanto più in una materia delicata come quella della regolazione del rapporto di lavoro. La vita della nostra società è animata da migliaia di imprese che ogni giorno si misurano sui mercati nazionali e internazionali, facendo sforzi tanto generosi, quanto sconosciuti ai media, per non licenziare nessuno. Allo stesso modo tante aggregazioni sociali vivono il territorio quotidianamente rispondendo ai bisogni di famiglie e persone e contribuendo alla tenuta sociale del nostro Paese. Sono queste le realtà che creano buona occupazione e il modo per sostenerle è innanzi tutto quello di non ostacolarle. La crisi di questi anni ci ha confermato che non è il protagonismo degli Stati a risolvere i problemi economici. Al contrario, è compito degli Stati valorizzare le proprie risorse e “liberare” l’azione di chi può generare ricchezza. Qualche giorno fa il Presidente di Compagnia delle Opere, Bernhard Scholz, ha efficacemente riassunto questo proposito: «Occorre ricordarsi proprio in questi tempi, dove tanti guardano alla politica con una attesa quasi messianica, che lo Stato dipende da presupposti che lui stesso non è in grado di creare e che si generano nella società stessa». Più società, meno Stato: anche nel mercato del lavoro.