Il dibattito sulle problematiche legate al lavoro mi spingono a evidenziare il pensiero che ha sul tema la Dottrina sociale della Chiesa Cattolica. La tradizione liberale ha sempre sostenuto che, fra tutti i fattori produttivi, il capitale ha la peculiarità di essere aggregante e incentivante rispetto ai processi economici in generale e a quelli d’impresa in particolare. Gli altri fattori produttivi si aggregano alla produzione perché il capitale assumendosi il rischio ontologico d’impresa è in grado di assicurare loro comunque un’adeguata rimunerazione. Di conseguenza, al capitale spetta, fra tutti i fattori produttivi, il primato rispetto alle scelte di investimento, a quelle produttive e alla destinazione del reddito che la produzione economica origina. Il che vale a dire che, secondo l’interpretazione liberal-capitalista, è competenza esclusiva del capitale quella di mettere in essere e successivamente di mantenere o meno l’attività d’impresa, di ampliarla, di ridurla, di “smontarla” da un sito per trasferirla in un altro giudicato economicamente più conveniente.
Il primato del capitale su tutti gli altri fattori produttivi, di fatto, si traduce (nella misura in cui risultassero deboli o asservite le resistenze sociali: Governo, sindacati, opinione pubblica, cultura, ecc.) in primato sulla stessa sopravvivenza delle imprese e dei vari centri sistematici di produzione. Il capitale, secondo questa interpretazione delle vicende economiche, è il dominus delle realtà produttive. Senza la sua discesa in campo e senza la sua volontà di restarvi nulla può essere stabilmente ed economicamente prodotto. Se il capitale non è adeguatamente soddisfatto nelle sue pretese economiche ha il diritto di ritirarsi da quell’avventura produttiva e, se vuole, ne può ricercare un’altra più adeguata alle sue aspettative remunerative (solo incidentalmente evidenziamo che uno dei problemi sociali, difficilmente risolto nelle singole attività produttive, è proprio la perimetrazione della portata dell’adeguatezza della remunerazione del capitale).
La Dottrina sociale, invece, afferma: “Il lavoro, per il suo carattere soggettivo e personale, è superiore ad ogni altro fattore di produzione: questo principio vale, in particolare, rispetto al capitale” (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 276). Dal che ne consegue non solo il ribaltamento del primato, ma anche l’annotazione che il primato poggia sul carattere soggettivo e personale del fattore lavoro. Con questa precisazione la Chiesa intende porre al centro del rapporto tra capitale e lavoro la caratterizzazione personale del secondo sul primo: il lavoro è la fonte immediata e primaria di sussistenza del lavoratore e dei suoi familiari.
Questa priorità trova la sua ragione d’essere direttamente nel processo di produzione “in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il ‘capitale’ essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale” (Laborem exercens, 12), vale a dire che senza il lavoro della persona umana il capitale è, e resta, un insieme di strumenti, insieme che solo l’operatività della persona umana è in grado di “animare” e trasformare per dare una risposta utile al bisogno umano.
Detta priorità del lavoro, acquista oggi anche un’altra valenza: spesso nell’attività delle grandi imprese non vi è più la “persona” dell’imprenditore, ma il capitale proprio delle imprese viene conferito da una moltitudine di soggetti che per loro stessa vocazione sono degli speculatori non affezionati all’impresa, ma solo ai suoi risultati positivi, perché questi fanno crescere il valore dei loro titoli azionari ai fini meramente speculativi. Spesso questi rentier sono costituiti da “fondi di investimento”, che non identificano più il capitale dell’impresa come un insieme di mezzi di produzione, ma come meri investimenti finanziari postulanti il più immediato profitto possibile.
Nella miopia di questo modo di interpretare il capitale proprio delle imprese si snatura l’impresa stessa trasformandola di fatto da un “bene comune” destinato a produrre “beni utili” per il sociale in un mero investimento finanziario per il quale il fattore lavoro è uguale a tutti gli altri fattori produttivi, ovvero merce fra le altre merci. Quando questo accade l’impresa non appartiene più a nessuno e non rispetterà neanche la storia che la lega a un certo territorio e se lo fa è solamente per un interessato tornaconto: per garantire maggiori dividendi ai suoi rentier-nominalmente proprietari.
Il primato del lavoro rispetto al capitale trova un’altra sua motivazione nella circostanza che “la proprietà, che si acquista anzitutto mediante il lavoro, deve servire il lavoro” (L. Ex., 14) per cui i mezzi di produzione “non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo al loro possesso […] è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente, servendo il lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell’ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto del loro uso comune” (L. ex., 14). “Così tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato odierno della tecnica – il suo ‘strumento’ sempre più perfezionato, è frutto del lavoro” (L. Ex., 12)
Il lavoro produce capitale perché questo, a sua volta, produca lavoro. È questa virtuosa e sistematica catena che fa dell’impresa un “banco comune di lavoro”; una casa comune stabile per il lavoro e per il capitale.