Il quadro sulla riforma delle pensioni contenuta nella manovra Monti dovrebbe essere ormai definito. Le ultime modifiche hanno riguardato il criterio dell’anzianità contributiva. Uno tra gli aspetti che sta maggiormente preoccupando molti cittadini prossimi all’uscita dal lavoro. Dal 2012, in particolare, occorreranno 42 anni e un mese per gli uomini e 41 anni e un mese per le donne. Tali requisiti aumentano, per entrambi, di un mese nel 2013 e di un altro nel 2014. Il tutto, per far sì che la pensione sia spostata sempre più in là nel tempo e gli anni in cui un cittadino resta a carico delle generazioni più giovani siano sempre meno. Laddove, poi, si chiedesse di andare in pensione prima dei 62 anni di età, si subirà una riduzione del proprio assegno pensionistico per ogni anno di anticipo. Sarà dell’1% per i primi due anni richiesti (la prima ipotesi era del 2%), risalirà al 2% dal terzo in poi. Alberto Brambilla, esperto di previdenza e già sottosegretario al Welfare, raggiunto da ilSussidiario.net spiega la logica che sottende all’insieme delle norme messe a punto. «I punti deboli del nostro sistema pensionistico sono due: l’età e lo sviluppo complessivo del Paese». Per quanto riguarda il primo punto «le misure del governo Monti, benché siano molto dure, ci mettono in linea con le migliori pratiche europee. E, quindi, consentiranno di eliminare uno degli anelli deboli. Il che garantirà un equilibrio, nel rapporto spesa pensionistica-Pil, dal punto di vista delle previdenza».
Tuttavia, il rapporto è costituito da due elementi. «Siccome la spesa pensionistica è al numeratore e lo sviluppo del Paese al denominatore, non c’è riforma previdenziale che di per sé sia sufficiente a garantire l’equilibrio del Paese. O meglio: il sistema reggerà. Ma avremo pensionati e lavoratori sempre più deboli». In sintesi: «Se vogliamo inquadrare la riforma dal punto di vista puramente previdenziale, grazie a questa significativa operazione di manutenzione e grazie all’introduzione dell’equità intergenerazionale attraverso il calcolo contributivo per tutti, direi che tutto quello che si poteva fare sulle pensioni è stato fatto». O quasi. «Prima o poi bisognerà effettuare la revisione del sistema della reversibilità. Sarebbe, inoltre, necessaria una più accorta selettività sugli strumenti di assistenza; perché la spesa assistenziale, in proporzione, sta galoppando di più di quella previdenziale. Del resto, in tal senso, siamo tra i paesi più generosi al mondo».
Secondo Brambilla, l’Italia, da questo punto di vista, ha un problema enorme: «Abbiamo 9 milioni di prestazioni, che rappresentano il 40% del totale e che vengono erogate nonostante non siano stati effettuati versamenti contributivi corretti. Gran parte di queste persone, oltre a non aver versato i contributi nel corso della propria vita, non hanno neanche pagato le tasse. Continuare a erogare e rivalutare queste pensioni – benché siano importi modesti – travalica i limiti dell’equità».
A conti fatti, in effetti «si tratta di 9 milioni di pensionati presi in carico dalle giovani generazioni. E non possiamo certo dire che in Italia ci siano 9 milioni di sfortunati o indigenti». Resta da sperare – si parlava, prima, anche di denominatore -, che il Paese si sviluppi. «Se il Pil sale di pochi decimali o non cresce affatto, infatti, non si genera occupazione e, dal punto di vista dei montanti di ogni singolo iscritto al sistema previdenziale, la rivalutazione risulta anch’essa estremamente bassa».