33 mesi: è il tempo che, mediamente, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, un giovane, in Italia, deve attendere prima di trovare il primo lavoro. Una volta dentro, tuttavia, non sa per quanto tempo potrà rimanerci. Sono 3 milioni e 700mila i lavoratori italiani che non hanno un contratto a tempo determinato. Parasubordinati, inquadrati come co.co.co., co.co.pro., collaborazioni di varia natura, partite iva e via dicendo, che non troveranno mai una banca disposta a concedergli un mutuo per acquistar casa, o un’automobile. Emilio Colombo, professore di Economia internazionale alla Bicocca di Milano, raggiunto da ilSussidiario.net, spiega: «Credo poco nel potere delle forme contrattuali. Il fattore decisivo è la valorizzazione del talento e del capitale umano delle persone». Resta da capire come. Ed è bene che la politica lo faccia al più presto. Anche perché i giovani precari, nell’attesa di essere assunti a tempo indeterminato, si appoggiano a nonni e genitori. I quali si trovano costretti a erodere la propria piccola ricchezza e intaccare i propri risparmi per garantirgli un’esistenza decente. «Negli Stati Uniti – spiega il professore – non esistono lavoratori di serie A e serie B. Quelli che noi chiamiamo di “serie B”, negli Usa sono considerati lavoratori normali. Ovvero, non hanno un contratto a tempo indeterminato, né sono inamovibili, ma potenzialmente licenziabili». Il vero problema, quindi, consiste anzitutto «nel facilitare la mobilità lavorativa; ad esempio, una donna, trascorso un periodo di minore attività lavorativa per maternità non dovrebbe trovare difficoltà nel reinserimento. Al contempo, una persona che viene licenziata e perde il lavoro dovrebbe poterne trovare un altro in tempi relativamente rapidi».
Altra questione dirimente, è la retribuzione. «In Italia abbiamo un problema di stipendi estremamente bassi all’ingresso, a prescindere dalla propria qualificazione. Un ingegnere, da noi, guadagna decisamente meno che nel resto d’Europa. Non è un caso che non si riesca ad arrestare la fuga dei cervelli; non solo dei docenti universitari, ma anche dei professionisti qualificati». Secondo Colombo, quindi, «il talento e le qualifiche devono essere remunerate in maniera adeguata. Se questo accade, la forma contrattuale diventa secondaria. Tuttavia, abbiamo barattato per anni la sicurezza e l’inamovibilità con stipendi bassi». Alla base di tali ragionamenti, persiste la necessità di eliminare gli ostacoli all’ingresso. «Neanche la facilitazione dell’accesso al mercato del lavoro può avvenire per decreto. Si ottiene facendo crescere il Paese. Le politiche per la crescita sono le uniche in grado di dare un futuro ai giovani». In parallelo, dovrà essere riformato il sistema educativo; «specie l’università e la scuola secondaria, nell’ottica di fornire, effettivamente, quelle competenze e professionalità richieste dal mercato».
Vi è infine, sempre per i lavoratori precari, il dramma delle pensioni. «La questione non cambia – dice -. Se le persone sono pagate poco, per definizione accumuleranno poco. C’è, inoltre, un problema di informazione. La maggior parte dei giovani, osservando chi è attualmente in pensione, si convince, quasi inconsciamente, che quando sarà il proprio turno riceverà un assegno in grado di garantirgli uno stile di vita altrettanto dignitoso». Non sarà così. «Un giovane non tiene in considerazione che il suo assegno subirà una riduzione di almeno il 40%. Ma, siccome l’eventualità è spostata talmente in avanti nel tempo, non se ne occupa. Monitorando, ad esempio, il proprio estratto conto pensionistico. Contestualmente, infine, benché sussistano tali criticità, stenta a diffondersi la cultura dell’assicurazione previdenziale».