Tutti parlano di articolo 18, in seguito alle polemiche scatenate dal ministro del Welfare, Elsa Fornero, dopo le sue dichiarazioni rilasciate domenica a Il Corriere della Sera in merito alla possibilità di contemplare l’ipotesi di potervi mettere mano. Il ministro, in realtà, non ha parlato esplicitamente di modifica o abolizione, come ci ha tenuto più volte a sottolineare, specificando che si era trattato esclusivamente di un invito al dialogo e che il giornalista le ha teso una trappola; ma tanto è bastato a scatenare l’ira di sindacati e parte del mondo politico al grido di “l’articolo 18 non si tocca”. Vediamo, nei dettagli, di cosa si tratta. Va detto, anzitutto, che fa parte dello Statuto dei lavoratori, termine con il quale si è soliti indicare la legge n. 300 del 20 maggio 1970: “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Afferma, in sostanza, che non si possano licenziare i lavoratori senza giusta causa o giustificato motivo.



Laddove tali presupposti non dovessero sussistere e il datore procedesse egualmente alla rescissione del contratto, il giudice dispone che il lavoratore venga reintegrato (cosa diversa dalla riassunzione: questa, infatti, comporta la perdita dei privilegi ottenuti con l’anzianità; la reintegrazione preserva le condizioni precedenti l’assunzione). Tuttavia, il dipendente può decidere di accettare, in alternativa, un’indennità pari a 15 mensilità della sua ultima retribuzione. Il dipendente, altresì, può fare ricorso d’urgenza e ottenere una sospensiva del licenziamento apri a 3 anni. L’articolo è valido solamente per le aziende sopra i 15 dipendenti.  In particolare, il giudice ordinerà «al datore di lavoro, imprenditore  e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale,  ufficio  o  reparto  autonomo  nel  quale ha avuto luogo il licenziamento  occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di  lavoro  o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare  il  lavoratore nel posto di lavoro». Per il computo dei lavoratori interessati dall’articolo, «si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di  formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo  conto,  a  tale  proposito,  che  il  computo  delle  unità lavorative  fa  riferimento  all’orario previsto dalla contrattazione collettiva  del settore».



Per tale conteggio, non si tiene conto del coniuge né dei parenti del datore di lavoro entro il secondo grado di parentela in linea diretta e in linea collaterale. Più volte si è tentato di modificare l’articolo all’insegna della maggiore flessibilità nel mondo del lavoro. Tuttavia, tali tentativi di cambiamenti sostanziali non sono andati a buon fine. Come scriveva, su queste pagine, Guido Gentili: «nel 1997, il primo a proporre un disegno di legge fu il senatore Franco De Benedetti sulla base degli studi del professor Ichino. Sullo stesso tema, il governo D’Alema si scontrò duramente con l’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati. Vi fu in seguito una proposta legislativa, nel 2000, presentata dal senatore Treu. Mentre D’Antona e Biagi, per il solo fatto di averne dibattuto, furono uccisi».