Infuria ancora, dopo anni, periodicamente, ma con cadenze ossessive, il dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Sull’argomento non prendono una posizione intransigente solo sindacalisti come Susanna Camusso (“È una norma di civiltà”), Segretario generale della Cgil, ma anche alcuni giuslavoristi e naturalmente i politici. Poi, con una superficialità impagabile, dicono la loro anche giornalisti stranieri, imputando magari all’articolo 18 di essere la causa della mancata crescita italiana. Per fortuna c’è anche chi si scosta da questo “coro” che ha il sapore di un immenso luogo comune, un non-problema, una “bandiera” innalzata per non risolvere veramente i problemi del mondo del lavoro in Italia, sia per quanto riguarda la produttività, sia per quanto riguarda la tutela stessa dei lavoratori. È il caso, per esempio, di Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, che abbiamo intervistato.



Professore, una domanda secca: la produttività sul lavoro può dipendere veramente dall’eliminazione dell’articolo 18?

Assolutamente no, sia per quanto riguarda la produttività, ma anche per quanto riguarda una vera tutela dei lavoratori. Tutta questa storia è un falso problema e, mi sia consentito dirlo, anche una battaglia di retroguardia.



Ci vuole spiegare perché?

Sei lei considera i casi di reintegrazione sul lavoro in base all’articolo 18, si ritrova di fronte a una percentuale marginale, qualcosa come uno “zero virgola qualche decimale”. Come si fa a considerare quindi l’articolo 18 una discriminante così importante che deve essere da un lato difeso a oltranza e dall’altro cancellato per rilanciare la produttività italiana? Forse stiamo scherzando.

Per quale ragione allora, secondo lei, c’è questo dibattito continuo, ripetuto, ciclico sull’ articolo 18?

Lo stanno agitando come una “bandiera”, come una questione di principio. Con l’impressione che, concentrandosi tutti su questo problema, si evita accuratamente di parlare di risolvere tutti gli altri problemi. A volte, pare, che in Italia questa sia una specialità. Tanto per fare un esempio, lei pensa che liberalizzando i taxi si risolvono i problemi delle liberalizzazioni in Italia e quindi si assicura e si rilancia lo sviluppo di questo Paese? Cerchiamo di affrontare i veri problemi. Sarebbe meglio per tutti.



Lo vogliamo fare un breve elenco di problemi sulla questione che riguarda i contratti, sui problemi del mondo del lavoro?

Intanto bisognerebbe affrontare seriamente il problema degli ammortizzatori sociali. Poi c’è la questione del cuneo fiscale, cioè del costo del lavoro. Non dimenticherei poi che c’è il problema della flessibilità all’interno del lavoro, non della flessibilità in uscita dal mondo del lavoro.

Lei pensa che la migliore forma di contrattazione sia quella aziendale?

Certamente. La flessibilità sul lavoro si ottiene proprio con la contrattazione aziendale. Noi abbiamo battuto la strada di un contratto nazionale che vale per tutte le imprese, quelle che vanno bene e quelle che vanno male, quelle che sono virtuose e quelle che virtuose non sono. In questo modo si ottiene una sorta di uguaglianza che tende verso il basso. È in questo modo che si è arrivati a una curva depressiva.

È questa contrattazione che si dovrebbe seguire come strada nella riforma dei contratti?

Occorrerebbe farlo progressivamente, senza mettere in atto cose astratte. Bisognerebbe operare un progressivo spostamento dal contratto nazionale a quello aziendale.

Ma questo riguarda anche la tutela dei lavoratori?

Guardi che non c’è alcun limite legale al licenziamento di mille o duemila persone per ragioni economiche in base all’articolo 18. C’è solo il limite dell’informazione sindacale e poi una spesa di sei mesi per l’Inps, con l’azienda che, magari attraverso una contrattazione, riesce a pagare anche di meno.

 

(Gianluigi Da Rold)