La riforma del mondo del lavoro è tra i punti che Mario Monti ha toccato ieri nella conferenza stampa di fine anno. Una riforma che passerà inevitabilmente dalla revisione del sistema contrattuale che attualmente regola il mondo del lavoro stesso. In attesa dell’incontro previsto il prossimo 9 gennaio fra sindacati e governo proprio per discutere le priorità di tale riforma, prende sempre più piede l’idea del contratto unico. Cosa significa? Per Mario Monti è necessario un sistema di regole non interpretabili che diano una certezza di base: un sistema di garanzie valido per tutti, dando prospettive al mondo dei precari, ma anche alle imprese, ponendo in atto un termine caro al ministro del Welfare, Elsa Fornero: flessibilità. IlSussidiario.net ha chiesto a Luca Spataro, docente di Economia politica all’Università di Pisa, di commentare questa ipotesi di contratto unico. «Quello che sottintende l’ipotesi di contratto unico – spiega – sono due problematiche: aumentare l’occupazione e tutelare i precari che hanno un livello basso di tutele». Aggiunge però Spataro che sarà necessario eliminare dal mondo del lavoro terminologie ormai obsolete e anche pericolose come reddito minimo garantito.



Eliminare la differenza fra aziende con meno di quindici dipendenti e quelle con più lavoratori porterà effettivamente dei benefici come si suggerisce?

Intanto è da dimostrare che questa differenza tra numero di imprese sia dovuta a disparità di trattamento secondo l’articolo 18. L’Italia è costituita da una miriade di piccole imprese che tradizionalmente fanno parte del tessuto produttivo nazionale ed effettivamente il nostro Paese soffre di una struttura produttiva schiacciata verso le piccole imprese. Invece, i temi sottintesi al contratto unico sono due.



Quali?

Da un lato aumentare l’occupazione e dall’altra tutelare i precari che hanno un livello basso di garanzie. Nel primo caso la teoria che sta dietro il contratto unico è che le imprese assumono poco perché hanno poca flessibilità in uscita, quindi effettuano poche nuove assunzioni perché hanno timore specialmente durante il ciclo economico negativo di non poter controllare la forza lavoro.

Il tema della flessibilità è uno dei più toccati dal ministro del Welfare, un tema definito necessario.

La flessibilità attualmente è schiacciata verso i giovani, mentre la flessibilità in entrata è un dato acquisito dal 1997 con la riforma Treu e con la riforma Biagi. Il problema è la flessibilità in uscita. Certamente occorre rivedere tutta la pletora di contratti attualmente esistenti come i contratti a progetto, riorganizzare i contratti attualmente esistenti è giusto.



Come cambierebbe la flessibilità in uscita?

È il tema scottante su cui ci sarà battaglia, soprattutto da parte dei sindacati, ma in genere da parte di tutte le forze politiche: come modulare questa flessibilità in uscita. Con il contratto unico in sostanza si garantirebbe alle imprese di licenziare un lavoratore anche a tempo indeterminato con un opportuno indennizzo. Credo che in questa situazione sia davvero difficile che un governo tecnico riesca a ottenere questa flessibilità in uscita da parte dei lavoratori anziani, e infatti si parla di un contratto unico che riguarderà solo i nuovi ingressi. Ci sarà spazio cioè forse per una riforma che riguardi i nuovi entrati.

Ma cosa succederebbe a un lavoratore di una certa età se venisse applicata davvero la flessibilità in uscita?

Un problema complicato da affrontare che riguarderebbe lavoratori che hanno dai 50 anni in su, che hanno un posto di lavoro fisso garantito e si vedrebbero in questo modo negata tale sicurezza. Evidentemente questi lavoratori sono inseriti  in una struttura salariale fortemente legata all’età e non alla produttività. Il tema sottostante è quindi la rimodulazione delle carriere salariali che attualmente dipende appunto dall’età e non dall’effettiva produttività. Senza tale rimodulazione è molto difficile ricollocare un lavoratore di 50 o 60 anni che sia stato licenziato per qualche motivo, ma che ha un peso economico eccessivo perché il suo salario dipende dall’età e non dalla produttività.

E per quanto riguarda i precari?

Non godono, ad esempio, di sussidio di disoccupazione e di altre tutele, ma parlare di reddito minimo garantito credo sia pericoloso, perché ricorda un certo tipo di welfare assistenziale che oggi ha poca ragione di essere. Attualmente le visioni dominanti del welfare si stanno spostando da una visione universalistica in cui tutti devono avere un livello garantito comunque a una visione previdenziale assicurativa. Ciascuno percepisce cioè dal sistema in proporzione a quello con cui contribuisce.

In che modo il reddito minimo garantito potrebbe essere pericoloso?

Il rischio è che un lavoratore licenziato che ha un reddito minimo garantito si sforzi poco di riqualificarsi per ripresentarsi sul mondo del lavoro. Sperando che venga eliminata la terminologia reddito garantito ci dovrà allora essere spazio per modulare questi interventi in modo tale da far leva sempre sulla responsabilità personale.