È scontro sulla riforma delle pensioni. Dopo l’incontro tra il premier Monti e le parti sociali i sindacati hanno ritrovato compattezza nel definire completamente sbagliate le misure del nuovo esecutivo. «Non è una modifica sostenibile», dice il leader della Cisl Raffaele Bonanni. «Se non ci saranno modifiche non si potrà parlare di equità», aggiunge Luigi Angeletti (Uil). La posizione della Cgil è nota, anche se esprimerà un giudizio compiuto «quando i provvedimenti verranno emanati nella loro interezza». IlSussidiario.net ne ha parlato con il Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Partito Democratico.

Professore, il governo Monti si prepara a varare una riforma delle pensioni. Un punto certo sembra il passaggio al sistema contributivo con il pro-rata. Lei cosa ne pensa?

In sostanza si tratta di questo: la riforma del 1995 ha previsto un nuovo sistema di calcolo delle pensioni, il “contributivo”, più sostenibile per il sistema ma meno favorevole per i lavoratori che vanno in pensione. E aveva previsto che quel nuovo sistema si applicasse soltanto a chi aveva incominciato a lavorare dopo il 1978. In questo modo la generazione di quelli che oggi hanno più di 50 anni ha continuato a godere di un privilegio rispetto alle generazioni successive.
Ora si prevede invece che il nuovo sistema di calcolo delle pensioni si applichi anche per la parte delle pensioni dei lavoratori cinquantenni e sessantenni destinata a maturare da qui in avanti. In questo momento di grave crisi economico-finanziaria del Paese mi sembra giustissimo che le prime a sopportare gli aggiustamenti necessari del welfare siano le generazioni che sono state fin qui privilegiate.

Ritiene che ci saranno solo aspetti positivi o anche aspetti negativi?

L’aspetto positivo è quello che ho detto: maggiore equità intergenerazionale. Certo, questa misura comporta un piccolo sacrificio per la mia generazione; ma basta pensare all’entità dello squilibrio previdenziale che ci vede avvantaggiati rispetto alle generazioni successive per rendersi conto che non c’è nulla di eccessivo in questo.
La modifica dei requisiti per il pensionamento potrebbe risultare eccessivamente gravosa per chi ha svolto prevalentemente un lavoro usurante, per chi oggi svolge lavoro manuale, per i lavoratori in mobilità, o per quelli che abbiano effettuato un riscatto contributivo contando sulla vecchia disciplina: per tutti questi casi occorre fare un’eccezione o dettare una disciplina particolare. So che il ministro del Welfare ha ben presente questa esigenza.

Forse ci sarà anche un intervento sulle pensioni di anzianità. Si parla di “quota 100” piuttosto che di aumentare il requisito minimo dei 40 anni di contributi. Pensa sia necessario intervenire sulle pensioni di anzianità? In che modo?

La questione dei 40 anni riguarda persone che hanno incominciato a lavorare all’età di 16 o 18, e che quindi aspirano a ritirarsi a 56 o 58 anni. Qui i problemi sono due: il primo è di equità fra generazioni: stiamo lasciando ai nostri figli un sistema che consentirà loro di andare in pensione, se andrà bene, a 67 o 68 anni, con assegni nettamente inferiori rispetto ai nostri.
Davvero vogliamo – oltre a questo – gravarli di un maggior debito pubblico per consentire ad alcuni di noi di ritirarsi prima dei 60 anni? Poi c’è la questione di politica europea: in Germania e negli altri maggiori paesi europei la possibilità di pensionamento senza requisiti di età anagrafica non è data a nessuno, eccetto lavori pesanti o usuranti; non possiamo chiedere ai tedeschi di farsi carico della garanzia per il nostro debito pubblico finché non abbiamo allineato i criteri del nostro welfare al loro.
Infine c’è un problema che attiene al mercato del lavoro: se vogliamo tornare a crescere non possiamo continuare a pagare, con denaro pubblico, i cinquantenni perché smettano definitivamente di lavorare.

Cosa pensa delle proteste dei sindacati e di alcuni esponenti del Pd sul tema delle pensioni?

Da parte dei sindacati non mi stupisce: fanno il loro mestiere, difendendo gli interessi dei loro iscritti. Mi colpisce di più questo atteggiamento da parte di dirigenti di un grande partito come il Pd, che dovrebbe avere prioritariamente a cuore l’interesse delle nuove generazioni: quelle che nessun sindacato rappresenta.
Il Pd dovrebbe chiedere, semmai, che queste misure di riequilibrio tra vecchie e nuove generazioni si accompagnassero con altre misure volte a garantire la continuità contributiva per i giovani costretti a cambiare lavoro con grande frequenza; e poi vigilare affinché la spending review nelle amministrazioni pubbliche, annunciata dal Governo, sia seria e incisiva; e affinché altrettanto incisiva sia la campagna di dismissione del patrimonio pubblico poco e male utilizzato. Dovrebbe anche rivendicare – lo fa, ma potrebbe farlo con maggior vigore – che si riduca drasticamente il peso fiscale sui redditi di lavoro più bassi.

A questo proposito si parla anche di un intervento che, in cambio dell’aumento dell’Iva, diminuisca gli oneri sul costo del lavoro. Cosa ne pensa?

Sarebbe una misura sacrosanta. Oggi su di un reddito di lavoro di 1000 euro al mese il prelievo Irpef è di 110 euro: una enormità, se si considera che 1000 euro al mese è una soglia di povertà.

Ritiene necessario che questo si traduca in buste paga più pesanti o in minori costi per le imprese?

Sarebbe opportuno che la misura venisse strutturata in modo da suddividere il vantaggio tra le due parti del rapporto, in modo da avere sia un effetto di maggior benessere delle famiglie e di stimolo ai consumi, sia un effetto di maggiore competitività delle imprese. Ma il problema della suddivisione non va enfatizzato troppo: gli economisti ci insegnano che la redistribuzione dello sgravio tra le due parti avviene poi comunque, dopo breve tempo, attraverso meccanismi che si attivano spontaneamente.
Se non subito, il Governo dovrà anche intervenire per riformare il mercato del lavoro. Si era parlato di partire dalla sua proposta di legge depositata in Senato, su cui però una parte del suo stesso partito appare critica.

Pensa che si troverà il consenso necessario in Parlamento per votare una legge che modificasse l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori?

Sul progetto del nuovo codice del lavoro semplificato, ispirato al modello danese della flexsecurity, contenuto nel disegno di legge n. 1873 che ho presentato due anni fa con altri 54 senatori del Pd, si è registrata un’ampia convergenza di forze politiche: lo hanno fatto proprio non solo il Terzo Polo, ma anche, ultimamente, il PdL. E un anno fa in Senato è stata approvata quasi all’unanimità una mozione a prima firma di Francesco Rutelli, che impegna il Governo a varare un Testo unico semplificato delle leggi sul lavoro modellato proprio su quel disegno di legge. Ora Mario Monti ha indicato questa riforma tra quelle fondamentali del suo programma; e la cosa non stupisce, se si ricorda che egli già prese posizione in modo molto incisivo, nel 2009, a favore di quel mio progetto sulle colonne del Corriere della Sera. Subito dopo questa prima manovra, dunque, penso che si aprirà un confronto con le parti sociali, in funzione dell’avvio in tempi abbastanza brevi dell’iter parlamentare di questa importante riforma.