Tra abolizione dell’anzianità, slittamento in avanti dell’uscita, allungamento dell’età media lavorativa, forbici, pro rata a via dicendo, i lavoratori anziani si stanno chiedendo, non senza una certa apprensione, quando finalmente potranno andare in pensione. Per i giovani lavoratori, o giovani che si accingono ad esserlo, la questione è molto più drastica. La domanda, infatti, è se andranno in pensione. «Il nostro sistema pensionistico è a ripartizione, ovvero viene pagato con i contributi dei lavoratori attivi. Se vogliamo, quindi, dare la possibilità ai giovani di avere una pensione, bisogna fare tutto il possibile per tenere il più possibile in equilibrio tale sistema», premette, interpellato da ilSussidiario.net, Alberto Brambilla, esperto di previdenza e già sottosegretario al Welfare. «È evidente – continua – che se, a fronte di un incremento della speranza di vita, le età di uscita sono basse, si corre il rischio di non tenere il sistema in solvibilità finanziaria». Qualche esempio, per comprendere meglio: «Se un lavoratore dipendente lavora 35 anni e versa il 33% di contributi e, una volta finito di lavorare, ha una speranza di vita di circa 26-27 anni, pari circa, quindi, al periodo trascorso in attività è chiaro che: o gli si darà poco o niente di pensione; o affinché possa vivere dignitosamente, la parte mancante ce la dovrà metter qualcun altro».



Non è tutto: «Su 35 anni di lavoro, tra malattie e assenze varie, ci sono circa 2 anni  e mezzo di pensioni figurative». Aumentare l’età pensionabile, quindi, è l’unico criterio che si è potuto adottare per mantenere l’equilibrio. «Anche perché – aggiunge – i contributi non si possono ulteriormente aumentare. Sono già tra i più elevati dell’area Ocse e incidono pesantemente sul costo del lavoro». I giovani, quindi, in teoria, dalla riforma in sé, non dovrebbero avere alcunché da temere, dal momento che è stata studiata, tutto sommato, per loro.



«Il vero problema è un altro», spiega Brambilla. «In Italia c’è troppa poca gente che lavora. Siamo 60 milioni. E, sommando 12,5 milioni di dipendenti del settore privato, 3,5 milioni del settore pubblico, gli autonomi, gli artigiani, i commercianti, gli imprenditori agricoli, gli associati in partecipazione, i professionisti e i parasubordinati, arriviamo 23,8 milioni di lavoratori. Significa che, grosso modo, ogni lavoratore deve mantenere altre due persone». Il confronto con la media europea e dei paesi Ocse non è rassicurante. «Siamo il fanalino di coda. Attribuendo all’indicatore occupazione valore 100, noi arriviamo a stento a 56 (43 tra le donne). Significa che solo poco più della metà della nostra forza lavoro (chi ha tra i 16 e i 64 anni) è effettivamente in attività». La fascia più elevata rivela dati ancor più allarmanti. «Tra coloro che hanno un’età compresa tra i 55 e i 64 anni, lavora meno del 33%».



I numeri si comprendono se comparati con quelli degli altri Paesi. «In Usa, Svezia e Olanda, abbiamo tassi di occupazione complessivi compresi tra il 70% e il 72%, quello femminile si attesta attorno al 53%, mentre quello degli ultra55enni supera mediamente il 65%». Al basso tasso di occupazione si aggiunge una scarsissima crescita. «Il tasso di incremento della produttività, cioè dell’efficacia complessiva del sistema Paese, si è ridotto in termini di competitività, negli ultimi dieci anni, rispetto a Francia e Germania, di 10 punti». A gravare ulteriormente sulle spalle delle giovani generazioni, come è noto, l’ingente debito pubblico accumulato negli anni. «Che si smaltisce solamente aumentano il denominatore, il Pil. Che, del resto, semplificando gli schemi economici, può essere considerato una derivata del rapporto tra l’occupazione e la produttività». Questo, in sostanza, è tutto ciò che realmente deve temere un giovane. E i lavoratori anziani?

«L’unico aspetto realmente delicato è l’abolizione delle quote», spiega Brambilla. Cerchiamo di capire: oggi, fino al 31 dicembre 2012, è possibile andare in pensione raggiunta “quota 96”, ovvero con  60 anni di età e 36 di contributi. La riforma, invece, prevede un’anzianità contributiva minima di 42 anni; e, abolita l’anzianità dal 2018, per tutti un età minima di 66 anni. «In entrambi i casi, per chi pensava di andare i pensione con le quote, si verificherebbe una scalino non  accettabile. Non lo era quello di Maroni da 3 anni, figuriamoci se potrà essere accettato questo. Si tratta di un punto insostenibile, che riguarda 2 milioni e mezzo circa di persone e che dovrà essere tassativamente modificato».

 

(Paolo Nessi)