I giovani italiani fino a 30 anni d’età erano oltre 30 milioni vent’anni fa. Adesso sono poco più della metà. Sono diventati la materia prima più carente, e quindi anche più preziosa, della nazione. Eppure la disoccupazione 2010 dei giovani fino a 30 anni è al 28,9% nazionale (nel Sud siamo addirittura al 35,2%) contro il quasi 9% della disoccupazione in generale. Fino ai 34 anni la disoccupazione sale addirittura a oltre il 32%.



Tutto questo accade, da un lato, mentre le imprese non trovano centinaia di migliaia di lavoratori con le competenze tecnico-professionali di cui hanno bisogno. Dall’altro lato, mentre altre centinaia di migliaia di posti di lavoro cosiddetti “in piedi”, cioè i lavori manuali, spesso peraltro meglio remunerati di quelli “seduti” (“lavori intellettuali”), restano inoccupati (o occupati soltanto da stranieri). Come sono possibili fenomeni in apparenza così contraddittori?



Affermare che esiste un disallineamento tra le competenze richieste dal mercato e quelle maturate dai giovani nei loro percorsi scolastici è senza dubbio vero. Ma perché questo fenomeno, nonostante le campagne per abbatterlo, non accenna a diminuire da decenni? Perché sempre più giovani considerano “cultura” degna di questo nome per lo più quella generalista, mentre non considerano affatto tale quella specifica, cioè quella pratica e tecnico-professionale?

Allo stesso modo, si dice una verità quando si afferma che esiste un pregiudizio negativo diffuso nei confronti del lavoro manuale. Solo il 5% dei giovani italiani che hanno superato i 15 anni dichiara, infatti, di potersi “vedere” occupato, in futuro, in un lavoro di questo tipo. Per di più quasi tutti riuniti nella classe dei “bocciati” scolastici. Ma perché non solo esiste questo pregiudizio, ma viene addirittura coltivato come un valore dal mainstream nazionale?



Noti analisti di grido, ad esempio, proclamando che neanche la crisi economica abbasserà le aspettative di “posti seduti” nei giovani che hanno studiato e osservando che, nella Londra degli anni Cinquanta i tassisti erano tutti inglesi, dieci anni dopo erano in prevalenza scozzesi e oggi sono per lo più indiani, pakistani e di colore, non temono di essere accusati di “neoclassismo etnico” difendendo questa tendenza come un’evoluzione necessaria della società.

I motivi di questa situazione sono certamente numerosi e complessi. Coinvolgono dinamiche dell’economia, della sociologia, dell’antropologia, della politica. Ma il cuore della risposta è, al fondo, pedagogico-formativo e sta nella sistematica liquidazione compiuta in circa quarant’anni del valore intrinsecamente culturale ed educativo di qualsiasi lavoro, anche di quello più manuale.

 

Gli ultimi Programmi di insegnamento per la scuola primaria che hanno parlato, infatti, sebbene con qualche cautela, di valore educativo del “lavoro manuale” risalgono al 1955. Per la scuola media, si trova qualcosa di reticente sul tema solo nei Programmi del 1962. Anche dopo la legge Moratti (2003) che ha introdotto l’alternanza scuola-lavoro, l’esclusione di questa metodologia formativa per l’intero obbligo di istruzione (16 anni), la sua scarsa diffusione anche dopo tale obbligo, nonché il crescere di una mentalità profilattica nei confronti di qualsiasi lavoro manuale svolto anche per poco tempo durante la minore età ha impedito e impedisce ai giovani la scoperta guidata e protetta del suo alto e sorprendente valore epistemologico (Peirce, James), della ricchezza culturale che contiene (Kerschensteiner, Weber), delle potenzialità formative che può permettere (Hessen), dell’esercizio morale che stimola (Scheler, Weil, Arendt) e della mobilità sociale che può favorire (artt. 35 e 46 della Costituzione).

 

Da sempre, invece, le generazioni giovanili sono diventate adulte, sperimentando “lavori” e provando su di essi le proprie attitudini, oltre che la propria intelligenza e il proprio carattere: per esempio, parte delle vacanze estive in un’officina, il tempo libero per collaborare ai servizi sociali per anziani e bisognosi, il curare periodicamente lavori agricoli, l’andare a bottega per alcuni giorni la settimana, ecc.

 

D’altra parte, non occorre aver letto Rousseau per sapere che se gli atteggiamenti positivi verso il lavoro non si acquisiscono ben prima dell’adolescenza è molto improbabile che sboccino dopo. E che se è un disvalore da cui guardarsi prima non può all’improvviso, da una certa età in poi, diventare un valore centrale sia del proprio progetto di vita, sia delle strategie culturali e formative delle nuove generazioni.

D’altra parte, vista la dimensione ormai strutturale della disoccupazione giovanile, non ci sarebbe nulla di provocatorio nell’introdurre nelle attuali politiche formative la richiesta di possedere obbligatoriamente «almeno una qualifica professionale» non solo a chi non prosegue gli studi nella secondaria o nell’università, ma anche a chi giunge per merito o per inerzia ai più alti gradi dell’istruzione.

 

Nessuno, in altri termini, che, o almeno a 18 anni per chi non prosegue gli studi o, comunque, entro la conclusione del suo percorso formativo per chi poi conclude l’istruzione secondaria e superiore, non sappia svolgere bene, come si deve, sapendone i perché critici e conoscitivi, anche un lavoro manuale.

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