«Molte cose la Fiat non ce la ha volute dire». Ecco, in questa candida confessione di Paolo Romani si può condensare l’incontro di sabato scorso dei vertici del Lingotto con il governo. Il ministro per lo Sviluppo economico attribuisce silenzi e reticenze a «comprensibili ragioni di riservatezza e per non dare un aiuto involontario alla concorrenza».
Non c’è dubbio, tra i motivi ci sono anche questi, la guerra dell’auto non fa prigionieri. Ma se non fosse solo così? Sgombriamo subito il campo da malevole intenzioni: niente trappole, intrighi, menzogne. Sergio Marchionne ha detto quel che sa e quel che vuol fare (sia pur senza entrare nei dettagli) oggi come oggi. Ma nemmeno lui sa che cosa farà davvero domani, di qui a un anno, figuriamoci nel 2014. I tempi della grande riconversione dell’industria automobilistica mondiale sono così veloci, il quadro è così mutevole, che risulta davvero difficile prevedere sviluppi addirittura poliennali.
Anche perché, quella suonata finora dal manager con il pullover nero resta una incompiuta. A palazzo Chigi ha ribadito che molto dipenderà dalla governabilità delle fabbriche. Senza dubbio è una condizione importante. Però, dopo le vittorie a Pomigliano d’Arco e Mirafiori non si può battere solo e sempre su questo tasto. Anche perché le condizioni per il successo sono soprattutto altrove.
1) Il primo problema resta in terra americana: assicurare il rilancio della Chrysler. L’azienda è rinata grazie alla cura da cavallo, all’innesto di nuove energie manageriali e tecnologiche arrivate dalla Fiat e ai dollari forniti dal governo e dai sindacati. Ma non basta. Chrysler è scesa al quinto posto negli Stati Uniti con una quota dell’8% che la tiene sempre tra color che son sospesi. La prova del mercato nudo e crudo manca ancora: l’aumento delle vendite l’anno scorso è dovuto alle flotte aziendali, i clienti restano in attesa di nuovi modelli, non solo restyling, come il celebrato Grand Cherokee.
2) Il secondo problema è finanziario: bisogna restituire ai governi statunitense e canadese i prestiti sui quali vengono applicati interessi «da usurai» sostiene Marchionne. Intanto ha chiesto altri tre miliardi e rotti di dollari, crediti agevolati come incentivo alla ricerca di auto a basso consumo. Molti sostengono che verranno usati per rimborsare parte dei debiti con un risparmio notevole sugli interessi (meno di un per cento contro il sette).
3) Il successo della operazione Chrysler è vitale per il futuro dell’intero gruppo a cominciare dalla Fiat. Se riesce, diventa inevitabile che l’azienda italiana venga fusa con quella americana. Anche perché, non volendo gli eredi Agnelli impegnarsi ulteriormente nel finanziamento dell’auto, i capitali vanno cercati sul mercato. Cioè a Wall Street. La quotazione di Chrysler-Fiat darebbe luogo per forza di cose a un’azienda incorporata negli Stati Uniti da dove provengono i capitali.
4) L’altra conditio sine qua non è sfondare in Asia, Cina e India soprattutto, dove non sono presenti né Fiat, né Chrysler. Un handicap non da nulla, difficile da recuperare perché sono fortemente insediate General Motors, Volkswagen, Toyota, i coreani, mentre si fanno strada i produttori locali. Quello è il mercato più dinamico; se è vero che la quota di sicurezza è a 5 milioni di veicoli prodotti (oggi insieme Chrysler e Fiat superano di poco i 3), allora non c’è modo di raggiungerla se non penetrando in Oriente.
5) Infine l’Europa dove la selezione, la “distruzione creatrice”, è stata rinviata. Per il momento, non ci sono accoppiamenti in vista. In futuro non si sa mai. Si dice che alla Fiat è riservato il destino della Opel rispetto a General Motors, sempre che venga seguita passo per passo la road map tracciata: cioè diventare la filiale europea di un grande gruppo mondiale. Ma oggi come oggi Chrysler costruisce appena un milione di auto e tutte in territorio nordamericano, quindi sarebbe lei la dépendance. Il suo marchio è più internazionale del marchio Fiat? Certo, ha una garanzia in più: la bandiera a stelle e strisce. È grazie al passaporto Usa che può sperare di farsi spazio in Asia e, soprattutto, di accedere al mercato dei capitali, senza il quale non c’è speranza né al di qua, né al di là dell’Atlantico.
Naturalmente tutto può ancora cambiare. L’industria delle industrie non è solo la più grande al mondo, ma anche la più imprevedibile. Se a Torino o a Detroit azzeccano l’auto delle meraviglie, allora una pioggia di quattrini affluisce nelle casse aziendali, mettendo fieno in cascina per i prossimi anni. Ciò è affidato spesso a un insieme di circostanze favorevoli, ma anche al tenace, continuo, impegno tecnologico, organizzativo, finanziario.
Relazioni industriali non conflittuali sono importanti, così come una efficiente utilizzazione degli impianti. Ma il futuro della Fiat e della Chrysler dipendono da molti fattori, uno prima di tutti: si può fare i capitalisti con i capitali degli altri, come sta facendo Marchionne, ma non senza capitali.