Nelle scorse settimane, Federmeccanica, l’Associazione dei datori di lavoro a cui è affidata la rappresentanza sindacale delle diverse categorie di imprese che spaziano nell’universo manifatturiero del nostro Paese, ha formalizzato ai sindacati nazionali di settore una proposta per un nuovo assetto della contrattazione sindacale e per la pattuizione dei contratti collettivi di lavoro. Le parti si incontreranno di nuovo per discutere del tema lunedì prossimo. 



Ai molteplici “addetti ai lavori” (gli attori delle Parti Sociali, giuristi del lavoro, giornalisti e opinion leader della politica) la questione è parsa più un tentativo di rispondere alle problematiche poste dalle recenti vicende Fiat – ovvero ragioni associative e di equilibri interni al variegato mondo confindustriale – più che un organico contributo al dibattito in corso sull’evoluzione delle relazioni industriali, quale strumento di governance delle relazioni di lavoro di fronte alle sfide della competizione economica che tutti i settori produttivi devono fronteggiare.



Nella sostanza, Federmeccanica ha proposto di “unificare” in un solo livello di contrattazione collettiva l’assetto regolatorio attuale, proponendo, sulla falsa riga di Pomigliano e Mirafiori, che le grandi imprese (oltre 500 addetti) possano scegliere di applicare un contratto aziendale omnicomprensivo e sostitutivo del contratto nazionale, lasciando quest’ultimo quale strumento per le Piccole e medie imprese (il 95% degli associati a Federmeccanica).

Il timido appoggio della Presidente Marcegaglia, la contrarietà di tutti i sindacati e “l’assordante silenzio” delle altre associazioni datoriali più importanti (Federchimica, Federalimentare, le grandi Associazioni Territoriali, a partire da Assolombarda) hanno già fatto scendere una cortina di silenzio sulla proposta, percepita, appunto, quale tentativo di arginare il fenomeno Marchionne e per evitare pericoli di fuoriuscita di imprese dal perimetro associativo.



Anche la rappresentanza datoriale deve fare i conti con le tessere: le associazioni vivono di contributi delle imprese, sempre più salati (per le imprese) nel combinato disposto dei margini di fatturato in restrizione e per quanto restituito in servizi. Se gli iscritti diminuiscono o sono scontenti, l’associazione perde prestigio, peso e capacità di lobby.

Lanciare un sasso di questa portata nell’incandescente mondo delle relazioni industriali, che ha visto raggiungere un faticoso accordo generale nel 2009 (non firmato dalla Cgil con le successive conseguenze), con i fatti di casa Fiat che stanno tenendo banco dalla primavera 2010 a oggi, ha significato più un tentativo di ripiego che una riflessione tesa ad accompagnare un raffreddamento del clima e la possibilità di imboccare strade “normali”, compresa l’evoluzione e le verifiche previste nel 2012 per l’accordo raggiunto due anni orsono.

 

Si è avuta la netta sensazione che la potente Federazione confindustriale di settore si sia trovata impreparata (o incapace di gestire al proprio interno) la vicenda Fiat, non riuscendo a dare garanzie di efficacia alle modifiche contrattuali sulle deroghe pattuite con Fim, Uilm, Fismic e Ugl, per l’ostilità Fiom e per eventuali trascinamenti giudiziari della lotta politico-sindacale di quest’ultima organizzazione.

 

Da qui il tentativo di uscire dall’accerchiamento con una proposta che ha scontentato tutti, compresi i sindacati firmatari degli accordi. E non è un caso che i più irritati sono proprio i dirigenti di Cisl, Uil & Co, in campo dalla fine degli anni ‘90 per trovare soluzioni adeguate e sfociate nel già citato accordo del 2009.

 

In una fase in cui occorre proseguire nel processo per snellire i contratti nazionali, anche sul piano numerico (non annullarli), in una serie di norme quadro leggere, universali, ma adattabili nelle diverse circostanze di imprese piccole, grandi, medie, manifatturiere o di processo, è necessario accompagnare e sostenere le varie forme di contrattazione decentrata, utilizzando gli spazi e le norme di de-fiscalizzazione sulle retribuzioni di produttività (fino a 6.000 euro annui per coloro che hanno redditi non superiori a 40.000 euro).

Si tratta, comunque, di vicende molto complesse e che si trascinano da tempo; risulta tuttavia decisivo analizzare tali questioni con gli occhi della “dinamica sociale” e non con i metri della politica. Infatti, l’eccesso di politicizzazione intorno a problemi rilevantissimi per il Paese, per le imprese e per le persone che lavorano (che rischiano di perdere il lavoro o che l’hanno perso) non si combina con i criteri dell’azione sindacale, ovvero una sfera attinente la sovranità dell’autonomia privata collettiva.

 

Il sistema di relazioni industriali, oltre il caso Fiat, funziona, non va sui giornali e ogni giorno in centinaia di imprese vi sono incontri, trattative e si firmano accordi per gestire le crisi, per ridistribuire la ricchezza realizzata o per conciliare, nelle varie forme, il tempo di lavoro e il tempo di vita, per sostenere la formazione e la crescita di conoscenze, capacità e competenze delle persone: “pezzi di bene comune” e di sussidiarietà nascosta che invece andrebbero maggiormente valorizzati.

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