Dove vuole arrivare Sergio Marchionne? Il geniale ma indecifrabile capo della Fiat legittima ogni giorno di più la domanda. A pochi giorni dalla conclusione a lui favorevole del “braccio di ferro” su Mirafiori, l’amministratore delegato del gruppo continua a non scoprire del tutto le sue carte. Anzi, da abile giocatore di poker – uno dei pochi passatempi che si concede – alza sempre di più l’asticella delle “condizioni” che richiede ai sindacati e al “sistema Paese” per dare finalmente il via al piano “Fabbrica Italia” che dovrebbe contemplare i 20 miliardi di investimenti tante volte evocati.
Ed è questa in fondo l’unica perplessità che la sua condotta ispiri. Perché che nel merito abbia ragione, Marchionne, a chiedere ai lavoratori una nuova efficienza, una nuova flessibilità, lo contestano in pochi, forse ormai soltanto gli irriducibili della Fiom-Cgil. Ma ogni volta che il manager segna un punto a favore nella sua strategia di riconversione gestionale dell’azienda, indica un nuovo traguardo da raggiungere prima di dare finalmente il via al suo piano.
Non ha fatto eccezione, in tal senso, la sua audizione in Parlamento. Ha ribadito che sotto il profilo economico non converrebbe investire in Italia: opinione forte e netta, la sua, inossidabile all’evidenza che tanti grandi gruppi industriali italiani e stranieri continuino invece a investirci e senza farla così difficile… Ha ribadito quindi le sue condizioni, sintetizzate nell’accordo concluso prima a Pomigliano e poi a Mirafiori. Che è logico pensare voglia estendere a tutti gli altri stabilimenti del gruppo nel Paese. Dove non a caso c’è già maretta: come alla Sevel e alla Bertone. Ma non si è sbilanciato sul “via” al suo programma.
Nel frattempo, ha dovuto incassare uno smacco sonoro come non gliene si ricordavano da mai: il “no” della Sollers in Russia al varo dell’annunciata joint-venture che avrebbe dovuto produrre autovetture e suv. Non pochi pezzi, ma decine di migliaia, in un grande impianto da 2,4 miliardi di euro, per incrementare decisamente quelle poche vetture che attualmente il gruppo, da solo, riesce a smerciare in un Paese di grandi opportunità: appena 22mila unità con il marchio Fiat nel 2010, contro le 18mila del 2009.
Ora come farà, Marchionne, a raggiungere l’auspicato obiettivo di vendere nel 2014 – dopodomani, per i tempi dell’industria automobilistica – 280 mila unità, di cui 230 mila automobili? Lo smacco è stato reso più amaro dal fatto che la Sollers ha annunciato di aver aperto, contestualmente, una trattativa alternativa con la Ford. Il che chiaramente obbligherà Marchionne alla non facile impresa di trovare a sua volta un partner alternativo, ammesso che si palesi.
Anche in India i conti non tornano, visto che le vetture vendute sono circa 20 mila contro le 130 mila del target 2014: e sì, che in quel Paese il partner strategico è Ratan Tata, che siede anche nel consiglio Fiat e non è uno qualunque, ma il vero magnate automobilistico indiano. Mentre la Cina ha registrato finora solo passi falsi, con i tentati accordi con Nanjing e Chery, mentre la nuova joint con Gac (Guangzhou automotive) dovrebbe partire nel secondo semestre dell’anno prossimo.
In questo quadro industrialmente un po’ fosco, si avvicina il Salone di Ginevra che vedrà finalmente i nuovi modelli Fiat di derivazione americana, primo fra tutti la nuova Lancia Thema realizzata sulla base della Chrysler 200: prosit. Ma da un signore che di auto s’intende, come Giorgio Giugiaro – che ha recentemente ceduto la sua azienda di design al colosso Volkswagen – Marchionne ha dovuto incassare un durissimo attacco. Il patron della Italdesign lo ha infatti definito
“un grande uomo di finanza. non di prodotto. Ma l’auto è un prodotto che si deve vendere e deve conquistare, non è un gioco di finanza, è il gioco di fare prodotti competitivi”.
Vecchi rancori, insopprimibile rivalità? Forse, anche. Ma la provocazione è di quelle che colpiscono alla bocca dello stomaco: finora Marchionne ha lanciato solo tre auto di successo, la nuova Panda, la Grande Punto e la Cinquecento. Tutte e tre “figlie” di progetti preesistenti a lui.
E poi ha fatto prodigi di finanza straordinaria. È arrivato il momento di fare prodigi sui prodotti: sia in America, dove le cose sembrano andare bene, ma non così brillantemente come certe cronache propagandistiche sostenevano fino a qualche settimana fa, e soprattutto nei Paesi emergenti. Oltre che in Italia. Altrimenti, la prossima mano di poker potrebbe essere quella perdente: per gli operai italiani, però, più che per lui.