Se la disoccupazione giovanile continua a essere un problema nel nostro Paese – gli ultimi dati dell’Istat parlano di un tasso del 28,9% – l’indice degli esperti viene spesso puntato contro il mondo dell’istruzione, reo di non fornire agli studenti le competenze che il mercato del lavoro richiede. E pensare che una volta erano le imprese stesse a gestire vere e proprie scuole al proprio interno, per esempio a Sesto San Giovanni, che almeno fino agli Ottanta ha rappresentato un polo industriale importantissimo alle porte di Milano.



Luigi Trezzi, docente di Storia economica all’Università di Milano-Bicocca, ci spiega, infatti, che già dal secondo decennio del Novecento, lì le imprese si occupavano di «corsi di “cultura generale”, perché ancora vi era un problema di alfabetizzazione; scuole elementari, medie, superiori, per apprendisti e professionali (diurne e serali); avviamento al lavoro; lezioni domenicali di disegno, economia domestica e dattilografia; doposcuola (anche per aiutare le mamme lavoratrici); borse di studio, premi al merito scolastico e contributi vari per gli studenti meritevoli». Soprattutto agli esordi, queste attività si svolgevano internamente all’azienda, che metteva a disposizione locali e «operai qualificati e specializzati per guidare gli insegnamenti pratici».



«Le scuole più qualificanti avevano in certi casi una “selezione” all’ingresso, in relazione alle esigenze delle singole imprese. Anche perché, uscendo da una scuola di questo genere si aveva la certezza di essere assunti dall’impresa. In certi casi, erano i dipendenti stessi a frequentare i corsi per specializzarsi e ambire a posizioni lavorative migliori».

Le imprese coinvolte sono quelle che hanno fatto la storia dell’industria italiana: Marelli, Pirelli, Breda, Falck, per restare a Sesto San Giovanni, e Fiat e Olivetti, per citare altri due celebri casi italiani. Si tratta di grandi imprese, proprio perché erano loro ad aver bisogno «di formare un numero relativamente alto di persone, non potendo farlo sul posto di lavoro, perché ciò avrebbe intralciato la catena di produzione. Nelle medie e piccole imprese, invece, era possibile imparare direttamente dagli operai più esperti una volta che si veniva assunti».



Col tempo, si è passati al finanziamento di scuole “esterne”. Per esempio, quando «una società di mutuo soccorso decideva di dar vita a una scuola professionale, riceveva spesso il finanziamento dalle imprese». Oppure esse decidevano di investire «in scuole in cui avevano fiducia». In questi casi, «fornivano anche il materiale per le lezioni pratiche (frese, torni, ecc.)».

 

In particolare, dopo la Seconda Guerra mondiale, la maggioranza delle aziende di Sesto San Giovanni decise di dar vita a «un unico comprensorio scolastico per formare tecnicamente i giovani, che venne poi affidato ai Salesiani. Salvo corsi molto specialistici che le aziende continuarono a tenere internamente, tutte le scuole tecniche confluirono man mano in quella dei Salesiani. Verso i quali convergevano le risorse che le imprese volevano utilizzare per questo obiettivo, e non solo attraverso i finanziamenti: c’era, infatti, chi offriva il terreno dove far sorgere la scuola, chi il materiale da laboratorio, chi quello didattico, ecc.».

 

Se queste scuole esterne non davano più garanzia di occupazione diretta, «erano comunque usate dalle imprese come “serbatoio” da cui attingere per cercare personale. Per esempio, c’erano senz’altro accordi tra il centro dei Salesiani e le imprese riguardo la possibilità che i giovani lì formati venissero assunti con più facilità».

La scelta dei Salesiani da parte delle imprese di Sesto non si può definire certamente casuale, «sia perché avevano già una tradizione educativa, sia perché il loro insegnamento era apprezzato. Non è nemmeno da escludere che alcuni imprenditori conoscessero direttamente l’esperienza dei Salesiani o che quest’ultimi fossero gli unici a essersi dimostrati disponibili a offrire un’esperienza scolastica di questo tipo».

 

Il polo industriale di Sesto San Giovanni ora non c’è più. «È rimasta ancora qualche azienda, ma si può dire che tutto sia finito a metà degli anni ’90. E l’impegno e gli investimenti delle imprese sono andati calando con l’avanzare della deindustrializzazione dell’area, cominciata a seguito della crisi del ’73. I Salesiani, invece, ci sono ancora e hanno anche ampliato col tempo l’offerta educativa».

 

Un’esperienza difficilmente ripetibile oggi, almeno negli stessi termini di allora, ma che deve far riflettere, perché, come ricorda ancora Trezzi, «queste scuole erano un supporto per l’economia del territorio, oltre che per le singole imprese».