Il Pil italiano, dice il centro studi di Confindustria, è ripartito nel primo trimestre del 2011 dopo il +0,1% degli ultimi tre mesi del 2010, ma la ripresa resta ancora debole. Tanto più che l’aumento dei prezzi delle materie prime che si sta registrando in questi giorni rischia di far lievitare i costi di produzione e, quindi, di vendita. Un pericolo da non sottovalutare, come ci ricorda Paolo Galassi, presidente di Confapi (la Confederazione nazionale della piccola e media industria italiana), anche perché in gioco ci sono tanti di posti di lavoro, in un momento in cui i giovani faticano a trovarne uno.
Il Governo sta predisponendo un piano per lo sviluppo dell’economia. Secondo lei, cosa bisogna fare e quali sono le priorità per sostenere lo sviluppo?
Mi sembra che il piano del Governo contenga cose importanti che se venissero realizzate non potrebbero che portarci dei vantaggi. Le buone intenzioni, quindi, ci sono tutte, ma mi piacerebbe vedere i fatti, al di là dei testi delle leggi. Penso, poi, che per le Pmi occorra fare qualche cosa in più, come ha sottolineato negli ultimi giorni anche lo stesso ministro Romani. Bisogna far crescere le Pmi, stimare chi ha il coraggio di investire, di crescere, di far lavorare più persone.
Intanto, è arrivata la proroga della moratoria dei debiti delle Pmi.
Il problema finanziario è molto sentito, per cui la moratoria è stata molto importante. Servono, però, anche infrastrutture di livello, leggi che ci aiutino nelle esportazioni e una riforma fiscale che ci permetta di avere un costo aziendale competitivo con la concorrenza internazionale e di lasciare qualcosa in più in busta paga ai nostri dipendenti.
Quali sono le vostre prospettive per il 2011?
Per alcuni settori, specie quelli legati all’export, si potrà avere una crescita fino al 10% del fatturato. Ma resta il fatto che in alcuni casi ne è stato perso anche il 50% durante la crisi. Non bisogna dimenticare, poi, che metà delle aziende che sono sopravvissute alla crisi ha bilanci in perdita. Se non aumenteranno le vendite, rischiano di non poter sopravvivere. Per fortuna, in alcuni mercati, specie dove si sta registrando una crescita come in Germania, i nostri prodotti trovano spazi, anche perché chi li compra è disposto a pagare la loro alta qualità.
La situazione del Nord Africa, con le rivolte che sono arrivate anche in Libia, sta scatenando una corsa al rialzo del prezzo del petrolio. Che impatto potrà avere sulla vostra attività?
Potrebbe essere disastroso. Uno dei problemi, come ho già detto, è quello finanziario: capisce che se aumentano i costi, la vita diventa davvero difficile. Famiglie e imprese (non parlo di chi opera nel lusso) non sono in grado di reggere prezzi alle stelle. La politica sta cercando di tranquillizzarci, dicendo che non ci saranno grosse conseguenze per i nostri approvvigionamenti energetici. Ma credo che il problema vada affrontato subito, perché quello che il Governo vuol fare per rilanciare l’economia rischia di essere vanificato. Si corre il pericolo, anzi, di un prolungamento della crisi, che può mettere a rischio la sopravvivenza delle imprese. Il problema non riguarda solo l’Italia e mi sembra che la politica internazionale si stia muovendo. Speriamo che tutto vada per il meglio e che la speculazione non faccia danni.
Qual è la situazione occupazionale nelle Pmi? È vero che nel primo trimestre del 2011 prevedete un aumento dei posti di lavoro persi?
C’è stato un calo della cassa integrazione, ma non perché ci sia lavoro in più, bensì perché le imprese hanno lasciato a casa tante persone. Se quel 50% di aziende con bilanci in perdita di cui parlavo prima non recupererà, si rischia la perdita di altri posti di lavoro. Se le cose non cambiano, difficilmente potremo tornare ai livelli occupazionali del 2007/2008.
Cosa bisogna fare contro la disoccupazione?
Bisogna tornare a occuparsi della produzione, a puntare sulla produttività. In Italia, ci siamo forse dimenticati che il nostro Paese è prima di tutto un produttore. E una parte non indifferente del problema è che la manodopera costa tantissimo, mentre quello che finisce in tasca ai lavoratori è sempre poco. Qui deve essere la politica a intervenire.
La disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli preoccupanti. Qual è secondo lei il problema in questo ambito?
C’è innanzitutto un problema culturale dei giovani, che pretendono, una volta presa la laurea, di poter fare un lavoro che in realtà le imprese non richiedono. È come se la nostra cultura illudesse i giovani che solo per il fatto di studiare abbiano già risolto il problema del lavoro, ma non è così. I giovani dovranno imparare ad adattarsi. Magari chi è laureato dovrà fare lavori che non sono prettamente quelli di ufficio. Le aziende, inoltre, quando assumono un neo-laureato o diplomato mettono già in conto che serviranno due-tre anni di gavetta prima che sia produttivo. Le imprese più grandi una volta finanziavano delle scuole di formazione, e questo era molto importante. Noi come associazione lo stiamo facendo, ma è fondamentale che arrivino le “dritte” delle imprese per capire quali sono i settori in cui andare a formare i giovani. Altrimenti si rischia di non dargli poi sbocchi lavorativi.
Un anno fa avete siglato con i sindacati l’accordo interconfederale sull’apprendistato professionalizzante. Qual è il bilancio dopo un anno? Lo strumento funziona?
È stato molto importante questo accordo sull’apprendistato, che prima non potevamo fare: ci permette, infatti, di formare dei giovani avendone anche dei benefici sul costo di manodopera. E penso che molte delle imprese che torneranno ad assumere lo vorranno usare, non solo per i costi minori, ma anche perché vorranno gente giovane per i nuovi prodotti che vorranno sviluppare. Le aziende che hanno aumentato il fatturato ci sono riuscite, infatti, grazie a prodotti nuovi. Il problema è che i giovani non sembrano molto disponibili a fare questo percorso.
I dati delle assunzioni di questi ultimi due anni mostrano, però, che le aziende hanno aumentato le quote delle assunzioni di figure mature rispetto a quelle giovani. È un fatto legato solo alla crisi oppure per i giovani gli spazi si stanno sempre più riducendo?
È avvenuto, oltre che per la crisi, anche perché le imprese che hanno sviluppato nuovi prodotti hanno preferito affidarli a persone con una certa esperienza, soprattutto per la vendita. Ora serve, però, gente che possa ulteriormente creare nuovi prodotti, che trovino sbocchi sul mercato. Per far questo, occorrono persone disposte a lavorare in reparto. Se vogliamo tornare a essere competitivi sui mercati produttivi, dobbiamo dedicare più attenzione al reparto. E io vedo, purtroppo, che i giovani non hanno voglia di andare in reparto. Non credo che sia un’umiliazione per un ingegnere o un diplomato occuparsi di un reparto. I giovani, invece, pensano di poter iniziare da un ufficio. Ma con gli uffici non portiamo avanti l’economia: servono persone che facciano i prodotti.
E cosa bisogna fare allora?
I giovani vanno portati in azienda e verso una cultura manifatturiera, perché senza questo settore non si crea ricchezza e l’economia non va avanti. I giovani dovrebbero recuperare lo spirito che c’era nel dopoguerra. Certo, gli vanno anche date garanzie sul futuro, dal punto di vista contrattuale e previdenziale. Se gran parte del loro stipendio finisce in tasse e non hanno nemmeno certezza sul fatto che in futuro avranno una pensione, come li si potrà convincere a fare un mestiere che a loro sembra umile, anche se non lo è?
Secondo lei, e per la sua esperienza, su cosa deve puntare un giovane che oggi si affaccia al mercato del lavoro?
I giovani devono in certi casi sapersi sacrificare, accettando ciò che è disponibile e misurandosi con quello. Quand’ero giovane volevo fare tante altre cose, non pensavo certo di prendere in mano l’azienda di mio padre. Ho quindi sacrificato alcuni anni per fare esperienza e diventare un professionista. Oggi, le condizioni di benessere di partenza danno forse ai giovani l’illusione che ci sia il lavoro garantito, ma non è così. Questo è stato vero per un certo periodo in Italia, nel settore privato come in quello pubblico, ma la globalizzazione ci ha fatto capire che le cose non possono più essere così.