Il nuovo docu-reality Il contratto, approdato martedì scorso sugli schermi di La7 (stasera è in programma la seconda puntata) con la conduzione di Sabrina Nobile, non è il primo show incentrato sul mondo del lavoro. Esiste almeno un precedente, peraltro celebre: si chiama The apprentice, e ha debuttato sulla statunitense NBC nel 2003 (in Italia è arrivato sull’emittente Sky Vivo solo nel 2007), affidato alla conduzione del miliardario Donald Trump (co-produttore insieme al Mark Burnett di Survivor), che attraverso la trasmissione prometteva di selezionare candidati cui affidare la guida delle sue aziende.
Atmosfera giocosamente competitiva, guida carismatica, vicende spettacolari quanto quelle di una fiction: sembra una vita fa. Di crisi economica non si parlava neppure lontanamente, e lo slogan della trasmissione Usa -“You’re fired!”, sei licenziato – non possedeva le sinistre risonanze che la stessa frase suscita oggi. Non solo negli Usa, evidentemente: dove pure la flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro è una realtà consolidata, ben prima che il concetto esordisse – o tentasse di farlo – nel nostro Paese.
Proprio per questo, proporre oggi una trasmissione basata sulla realtà dell’accesso al mercato del lavoro nel nostro Paese ha suscitato perplessità in molti: parlare meno che seriamente di assunzioni e licenziamenti in Italia non è mai stato facile, meno che mai lo è all’indomani della crisi che ha coinvolto anche i lavoratori italiani.
Al suo primo appuntamento, il docu-reality si è in effetti cimentato nel raggiungimento di un difficile equilibrio: quello tra spettacolo e attualità, tra leggerezza e dramma, tra competizione e lotta per la sopravvivenza. Un equilibrio non di rado messo a rischio dalla scelta di includere nel cast, destinandole ad affiancare la conduzione, una serie di figure professionali assai poco tradizionali, ai limiti dell’improbabile.
E così, mentre i concorrenti (non così giovani, a dispetto della retorica imperante) si sono confrontati con le asperità del mestiere del venditore, attorno a loro si aggiravano “consulenti filosofici” e “coach motivazionali”: ruoli che difficilmente potrebbero figurare tra quelli messi in palio dalla trasmissione, indice di un genere di posizione alla quale, nonostante tutto, l’accesso per i “poveri mortali” resta precluso. Soprattutto se, seguendo qualche consiglio poco avveduto, decidessero di considerare superfluo il diploma di laurea: ciò che i vari consulenti e coach, più che titolati, si guardano evidentemente bene dal fare.
Eppure, la realtà a tratti fa capolino: non solo quella delle relazioni personali, che come in tutti i reality prende gradualmente il sopravvento sulle buone intenzioni, ma quella del contesto sociale, che smentisce l’iniziatico gergo professionale (fatto di termini discutibili, come “skillato”) per svelare scorci di puro sconforto. Le parole di uno dei concorrenti suonano rivelatrici: quando si cerca lavoro spinti dalla necessità, questioni come le attitudini, le aspirazioni o le opportunità passano in secondo piano; basta trovare un posto, un modo per sostentarsi, per mantenere se stessi e una possibile famiglia (e magari abbandonare finalmente la casa di papà).
La ricerca di un lavoro, vista da questa prospettiva, somiglia davvero poco a un talent-show (modello cui la trasmissione di La7 si ispira non troppo velatamente) in cui capacità e meriti – quelli professionali come quelli canori – vengono messi a confronto di fronte alle telecamere. La soddisfazione per avercela fatta, vista dalla platea del piccolo schermo, assomiglia da vicino a quella dei novelli cantanti in erba o degli scopritori di pacchi miliardari; e anche il tifo del pubblico e dei familiari suona allo stesso modo. Ma resta diverso il suo peso specifico, che racchiude una vita intera.