Di certo, per ora, c’è un decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri di mercoledì scorso, che dà la possibilità di posporre di 60 giorni (oltre ai 120 già previsti dalla chiusura dell’esercizio) le assemblee delle società quotate, anche quelle già convocate, come nel caso di Parmalat (la data fissata, al momento, è quella del 14 aprile). Il resto diverrà più chiaro dalla prossima settimana, quando il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, scriverà all’Unione europea per illustrare le prossime mosse del piano anti-scalate che il Governo intende mettere in campo per “blindare” alcuni settori strategici dalle mire di soggetti economici stranieri.



Questo “scudo”, che il ministro vorrebbe porre a tutela delle telecomunicazioni, dell’energia, dell’agroalimentare e della difesa, però, non convince tutti. Confindustria, per esempio, ritiene che si tratti di un provvedimento mirato a singoli casi, che non risolve i problemi di fondo e che rischia, anzi, di indebolire la capacità di attrarre investimenti esteri. Di tutt’altro avviso Giorgio Squinzi, patron di Mapei, nonché presidente di Federchimica e della Cefic (l’associazione europea dell’industria chimica), che a ilsussidiario.net spiega che «senza voler incidere troppo sulla libertà economica di intraprendere, è giusto che qualche paletto che ci sia».



In che senso?

È vero che ci sono due casi specifici che hanno portato a questa situazione, Bulgari e Parmalat, ma bisogna distinguere. Il primo è un caso che fa storia a sé, che non andrebbe regolamentato. Credo sia giusto che ci sia una libertà molto ampia in un settore del genere. Il caso Parmalat, invece, è diverso e per certi versi più critico, perché non riguarda solo l’azienda di Collecchio, ma anche tutta la filiera produttiva italiana che arriva fino al settore agricolo. Ritengo quindi che sia giusto porre dei paletti in un settore come questo.

Dunque, lei è favorevole all’idea di un decreto anti-scalata?



Sono assolutamente d’accordo con Tremonti e mi chiedo come mai l’Italia non abbia pensato di adottare prima un provvedimento del genere, dato che in Francia e Germania esistono leggi analoghe da tempo. Tanto che in passato l’atteggiamento protezionistico di alcuni paesi ha bloccato alcune possibili operazioni italiane. Penso ai casi Pirelli-Continental o Enel-Suez.

I settori che verrebbero coinvolti sono quattro (telecomunicazioni, energia, agroalimentare e difesa). Secondo lei, ce n’è qualche altro che andrebbe salvaguardato o è giusto limitarsi a questi?

Ritengo sia giusto limitarsi a questi settori, che sono molto critici e per i quali è giusto che ci sia qualche regola di “difesa”.

L’ultimo Consiglio dei ministri ha anche varato una moratoria di un anno sul nucleare. Cosa ne pensa?

Più che una moratoria bisognerebbe lasciar depositare la fase emozionale seguita agli eventi di Fukushima, tenendo conto delle diversità profonde, anche a livello di terremoti, tra il Giappone e l’Italia. Nel nostro Paese ci sono siti che non sono a rischio sismico, dove si possono collocare le centrali, le quali non sono più di vecchia concezione come quella giapponese dove ci sono stati problemi. Oggi sono stati fatti passi avanti clamorosi e credo che si possa partire con un livello di sicurezza enormemente più alto. Detto questo, lasciamo depositare l’emozione del momento e poi vediamo. Non dimentichiamo, però, che senza il nucleare rinunciamo a una grossa fetta di competitività per il nostro Paese.

Si riferisce al costo dell’energia per le imprese?

Assolutamente sì. Questo è uno dei punti critici per il nostro Paese e dobbiamo recuperare questa competitività. Il nucleare è quindi sicuramente inevitabile.

In questi primi mesi dell’anno sono arrivati dei segnali di ripresa economica. Ci sono, però, dei timori inflazionistici che potrebbero in qualche modo frenarla. Secondo lei, che 2011 ci dobbiamo aspettare?

Penso che globalmente ci sarà una crescita economica, anche se non sarà “effervescente”. Il rischio inflattivo è legato a una serie di situazioni particolari, come quella del Nord Africa o del Giappone, che tendono a impattare sull’economia reale alterando alcuni parametri fondamentali, come i costi delle materie prime o dell’energia. C’è una ripresa in atto, ma non è ancora della “grandezza” cui siamo stati abituati in passato. Rispetto a quanto avvenuto dopo le crisi del ’90-91 o dell’82, certamente la ripresa sarà decisamente più lenta, anche perché la crisi che abbiamo attraversato è stata più profonda. Tutto sommato, i segnali che arrivano sono abbastanza buoni per diversi indicatori. Inoltre, nonostante le instabilità politiche, dietro all’andamento dei prezzi delle materie prime c’è sempre un gioco speculativo che tende ad amplificare le oscillazioni. E mi aspetto che nei prossimi mesi si arrivi a uno “spianamento” di questi picchi.

Uno dei timori crescenti è quello di una ripresa economica senza un aumento dell’occupazione. Cosa si può fare per favorire quest’ultima?

Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che in Italia tante aziende hanno affrontato la crisi facendo sacrifici, mantenendo un’occupazione forse anche più elevata di quella che sarebbe stata giustificata nell’immediato. In Mapei, per esempio, non abbiamo fatto un’ora di cassa integrazione, né alcuna riduzione del personale: ci siamo comportati come se la crisi non ci fosse stata, facendo qualche sacrificio. Per tornare veramente a far crescere l’occupazione, bisogna che la ripresa aumenti di intensità. Sono convinto, però, che nella seconda parte dell’anno e sicuramente nel 2012-2013 dovremo vedere già qualche segnale positivo. Negli Usa, peraltro, negli ultimi due mesi si è avuta qualche indicazione in questa direzione. Speriamo, quindi, che ci siano altre conferme in futuro.

A preoccupare maggiormente è la disoccupazione giovanile. Qual è, secondo lei, il problema principale da risolvere in questo ambito? Molti puntano il dito sull’inadeguatezza del sistema dell’istruzione…

La crisi certamente non ha aiutato la situazione dei giovani, dato che si faceva già fatica a mantenere il posto di lavoro per quelli che ce l’avevano. Creare nuova occupazione per chi si affaccia ora sul mercato è piuttosto complicato, ma dobbiamo continuare a crederci. Detto questo, personalmente ritengo che la qualità della formazione in Italia, in modo particolare quella scolastica, non debba essere messa più di tanto sotto accusa: il gruppo Mapei è presente in oltre 50 nazioni e le assicuro che la qualità delle persone che escono dalle scuole e dalle università italiane è sicuramente competitiva rispetto a quella degli altri paesi. C’è, probabilmente, qualche rettifica da fare. In particolare, non credo che l’introduzione della laurea triennale abbia dato dei risultati straordinari. Sono, invece, piuttosto favorevole alla riforma Gelmini, che dovrebbe contribuire ulteriormente a migliorare il clima.

Ritiene allora che ci sia un problema da parte dei giovani, che magari si formano e studiano per lavori per i quali non c’è poi richiesta sul mercato?

Il fatto che i giovani siano un po’ disorientati fa forse parte di un clima generale del Paese, dove si è persa la voglia di soffrire, di intraprendere, di crescere. Mi ricordo la voglia che c’era negli anni ’50-’60, ho ancora in mente le fotografie che ritraevano mio padre insieme ai suoi sette dipendenti nel 1952 e la voglia di fare che c’era allora. Oggi siamo diventati un gruppo di settemila persone, perché ci abbiamo creduto e ci abbiamo sempre messo impegno. Bisogna credere in quello che si fa, investire su se stessi, pensare un po’ meno alle diversificazioni finanziarie e rimettere il manifatturiero al centro della nostra società. Non possiamo, infatti, dimenticare che l’Italia è, e deve rimanere, un Paese manifatturiero.

Cosa intende dire?

Un Paese come il nostro, che non ha materie prime, non ha fonti energetiche (e ha costi energetici più alti del 30% rispetto agli altri paesi), dove esiste un sistema di infrastrutture diventato ormai quasi fatiscente e, soprattutto, la più elevata complicazione burocratica e normativa tra i paesi sviluppati, deve per forza far ricorso alle energie degli imprenditori, di chi ha voglia di fare, di intraprendere. Non dobbiamo dimenticare che siamo il secondo Paese al mondo in termini di Pil manifatturiero pro-capite. Per questo non possiamo fare a meno del manifatturiero, ma anzi è fondamentale che portiamo avanti e coltiviamo questa nostra vocazione.

In un settore come il vostro, la ricerca svolge un ruolo importante. Secondo lei, nel nostro Paese è possibile fare ricerca?

Si può fare ricerca, anche se è sempre più difficile, perché il pubblico ha tirato un po’ i remi in barca. Mi riferisco sia alla università che alle istituzioni pubbliche, come il Cnr. I privati continuano a fare ricerca, perché hanno bisogno di continuare a essere innovativi. La ricerca deve essere, infatti, finalizzata all’innovazione: se fosse fine a se stessa, non porterebbe da nessuna parte. Abbiamo assolutamente bisogno di innovazione per creare nuovi prodotti ed essere così competitivi nei mercati globali.

In Federmeccanica si parla di contratti aziendali sostitutivi (non integrativi) di quelli nazionali. Cosa ne pensa? Bisognerebbe far così in tutti i comparti?

Da chimico, continuo a pensare che il modello cosiddetto del “welfare chimico” sia positivo. Noi abbiamo, infatti, un contratto nazionale forte, nel quale sono però previste tantissime forme di flessibilità. Non avremmo quindi avuto bisogno di fare come Marchionne. Da presidente di Federchimica, ho firmato sei contratti nazionali di lavoro, senza un’ora di sciopero. E nei nostri contratti ci sono tutte le forme più innovative di welfare che si potevano fare, dal fondo integrativo previdenziale chiuso fino ai fondi integrativi sanitari. Un contratto del genere è però frutto di relazioni industriali più avanzate e costruttive che si creano giorno per giorno con un colloquio continuo tra le parti e non attraverso uno scontro periodico triennale per arrivare alla firma di un contratto nazionale.

(Lorenzo Torrisi)

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